La fauna: i vertebrati

di Davide Scarpa

Introduzione

Il territorio della Saccisica, come già emerso nei capitoli precedenti, è frutto di consistenti interventi antropici, in particolare quelli di bonifica e d’uso agricolo. I popolamenti faunistici non corrispondono quindi a quelle che sarebbero composizioni in specie, distribuzioni, abbondanze e densità proprie delle biocenosi animali delle pianure alluvionali naturali. La modificazione degli habitat si risolve sulle specie animali con conseguenze differenti a seconda delle specie in questione. La scomparsa o la riduzione in superficie e la frammentazione degli habitat hanno sugli organismi a ristretto range ecologico (poco adattabili) conseguenze negative che conducono all’estinzione o ad altri fenomeni legati all’isolamento. La vitalità delle popolazioni di queste specie è, infatti, condizionata dalle necessità e possibilità di spostamento degli individui, conseguenza in primis del minimo spazio vitale e alle esigenze migratorie. L’antropizzazione, che si manifesta dapprima con la scomparsa degli ambienti umidi e di quelli boschivi e poi con l’imposizione di una matrice agricola e dell’infrastrutturazione urbana, rende gli spostamenti rischiosi o impossibili per tali specie, quando non ne distrugge gli habitat necessari alla riproduzione e all’alimentazione.

Altre specie però, quelle più eclettiche, ma comunque una minoranza rispetto alla biodiversità naturale, risultano talvolta favorite dal fenomeno della banalizzazione ecosistemica operata dall’uomo. Anzi, molto spesso sono le stesse pratiche umane a mettere a disposizione di queste specie risorse supplementari e più facilmente fruibili. A questo punto, le esplosioni demografiche che ne conseguono, vengono avvertite quali minacce alle attività e alla salute umana, o di altre specie, e si opta per la persecuzione con fucili, trappole o veleni, quando una più attenta gestione delle risorse e il recupero della qualità ambientale sarebbero soluzioni più efficaci e definitive.

Da quanto suddetto si evince che la distruzione degli habitat ha un ruolo importante nel peggiorare le condizioni dei popolamenti faunistici ed, in effetti, gli esperti del settore concordano col ritenerla la prima causa globale d’estinzione, seguita dall’introduzione di specie alloctone e dal sovrasfruttamento (prelievo venatorio, pesca e raccolta). Quest’ultima causa a livello locale sembra la più facilmente estinguibile, dato che è sufficiente dotare tali attività di regolamenti oculati. Più radicale e diffuso appare il secondo fattore, quello cioè della presenza oramai consolidata di specie alloctone, sulla cui introduzione e gestione solo recentemente si è prodotta legislazione.

Valle Millecampi e Morosina

Il lembo della provincia padovana che s’incunea nell’area lagunare veneziana è costituito da ambienti di valle, distinguibili in valli chiuse, come per esempio la Morosina, e valli aperte, come la più vasta Millecampi.

Valle Millecampi
Valle Millecampi

Si tratta di tipiche valli cosiddette alte, caratterizzate cioè da una collocazione a ridosso della terraferma e dalla conseguente disponibilità di apporti d’acqua dolce, che si traducono in gradienti spaziali di salinità non riscontrabili nelle valli basse. Questi ambienti di transizione (ecotoni) si presentano con una ricchezza di specie superiore rispetto agli ambienti cui fanno da margine, proprio perché in loro s’incontrano le comunità vegetali ed animali che popolano gli ecosistemi acquatici e terrestri. A renderli ancor più particolari è la loro abbondante produttività. Le acque basse lagunari offrono condizioni non semplici per gli organismi. Andando incontro a repentini cambiamenti di temperatura, concentrazioni saline e livelli delle acque, risultano essere piuttosto stressanti per gli organismi, cosicché relativamente poche sono le specie che riescono ad insediarvisi a livello di produttori primari (fitoplancton, alghe e piante acquatiche).

Le specie che riescono a farlo però, con particolari adattamenti morfologici e fisiologici, devono affrontare scarsa competizione, quindi le loro popolazioni prosperano. Il livello dei produttori delle acque lagunari è dunque caratterizzato da poche specie, ma da popolamenti abbondanti, grazie anche all’irraggiamento solare che, trattandosi di volumi d’acqua scarsi, riscalda rapidamente l’ambiente liquido, favorendo i processi biologici, ed inoltre raggiunge qui il fondo, alimentando la comunità bentonica, cosa che in ambiente marino difficilmente può fare a causa delle maggiori profondità.
Quest’elevata produttività primaria induce moltissime specie di consumatori a popolare questa zona (uomo compreso). Essendo abbondante in quantità, ma scarsa in differenziazione, la risorsa, per essere sfruttata al meglio, induce differenziazione nei consumatori ed è, infatti, a questo livello che la biodiversità lagunare è davvero copiosa. Lo è in particolare per le due classi animali che più caratterizzano gli ambienti di valle, i pesci e gli uccelli, e che ne hanno determinato anche lo sfruttamento antropico, appunto con le attività di pesca e caccia.

L’attività di pesca si differenzia tra valli chiuse (con arginature fisse) e valli semichiuse o aperte. Nelle chiuse si parla più propriamente di vallicoltura, mentre nelle aperte si ha più tipicamente la piccola pesca con cogoi, chebe o la raccolta di molluschi. Entrambe però sono condizionate dalla stagionalità dei popolamenti. Alcune specie di pesci, infatti, per sfruttare l’elevata produttività di queste acque, le raggiungono dal mare, in primavera, con la migrazione di monta.

Chelon labrosus
Cefalo bosega (Chelon labrosus)

Si tratta di specie adatte a sopportare le differenze chimico-fisiche delle acque lagunari (specie euriecie), ed in particolare si tratta delle cinque specie di cefali qui rinvenibili: verzelata (Liza saliens), caustelo (Liza ramada), bosega (Chelon labrosus), volpina (Mugil cephalus), lotregan (Liza aurata). Con esse giungono altre specie, più pregiate, come l’orata (Sparus auratus), il branzino (Dicentrarchus labrax), l’anguilla (Anguilla anguilla), le sogliole (Solea vulgaris), la passera di mare (Pleuronectes flesus) e i latterini (Atherina boyeri).

È con la migrazione di ritorno al mare, la fraìma, che avviene per raggiungere acque più profonde, adatte allo sverno, che più agevolmente queste specie vengono catturate, specialmente nell’attività di vallicoltura.

Laddove i fondali sono ricoperti da praterie di fanerogame (più tipicamente a Nanozostera noltii), scavano le loro tane nel fango i ghiozzi (Zosterissessor ophiocephalus e Gobius niger), nonché i rari ghiozzetto di laguna (Knipowitschia panizzae) e ghiozzetto cenerino (Potamoschistus canestrinii), specie protette dalle direttive comunitarie in tema di conservazione di habitat e specie. Relativamente a quest’ultima nota è da ricordare che la Laguna medio-inferiore di Venezia, a cui queste aree vallive appartengono, è stata individuata quale Sito d’Importanza Comunitaria (SIC) per la tutela della biodiversità.

Un’altra direttiva comunitaria, la 409/79, per la tutela degli uccelli, identifica queste zone vallive quali Zone di Protezione Speciale (ZPS). In effetti, l’abbondanza e la varietà di volatili che le popolano stabilmente o stagionalmente è notevole e si tratta, sovente, di specie le cui popolazioni presentano situazioni non ottimali di conservazione.

I fondali che emergono con le basse maree, detti velme, ricchi di molluschi e vermi, sono tipicamente frequentati da diverse specie appartenenti al vasto gruppo dei limicoli, vale a dire uccelli anatomicamente ed etologicamente specializzati per sondare il limo alla ricerca di cibo. Le diverse proporzioni di zampe e becchi permettono la contemporanea presenza di più specie di questo gruppo che ricercano il cibo a profondità diverse. Notevoli sono le presenze di pettegola (Tringa totanus), con uno dei più consistenti contingenti dell’intera area mediterranea, come pure quelle di totano moro (Tringa erythropus), piovanello pancianera (Calidris alpina), pittima (Limosa limosa), pantana (Tringa nebularia), le varie specie di piro-piro (Tringa glareola, T. ochropus e Actitis hypoleucos). Eleganti, si muovono in questi spazi anche il cavaliere d’Italia (Himantopus himantopus) e l’avocetta (Recurvirostra avosetta). Alcune di queste specie risultano presenti solo durante il periodo riproduttivo, mentre preferiscono svernare a latitudini inferiori.

Ciò è ancor più evidente per le diverse specie di anatre, tra cui la più comune è certamente il germano reale (Anas platyrhynchos). I grossi stormi dell’autunno-inverno scompaiono già a febbraio, quando gli svernanti se ne vanno, mentre gli stanziali terminano il periodo gregario per formare le coppie ed iniziare la nidificazione. Altre specie di anatre particolarmente abbondanti durante lo svernamento sono le alzavole (Anas crecca), i moriglioni (Aythya ferina), i codoni (Anas acuta), i mestoloni (Anas clypeata), i fistioni (Anas penelope) e le morette (Aythya fuligula). Sono specie che per secoli hanno costituito l’oggetto principale della caccia di valle assieme alla folaga (Fulica atra). L’oca

selvatica (Anser anser) è un’altra specie un tempo oggetto di prelievo venatorio, oggi invece rigorosamente protetta, come anche il cigno reale (Cignus olor). Signore incontrastato di queste aree sembra essere il falco di palude (Circus aeruginosus), che è facile osservare mentre volteggia alla ricerca di prede, che porterà poi al nido, nel folto del canneto. La sua reggenza viene però messa in dubbio con l’inverno, quando giungono qui rapaci quali le albanelle reali (Circus cyaneus), le poiane (Buteo buteo) e talvolta l’aquila anatraia maggiore (Aquila clanga).

Pulcino di gabbiano
Pulcino di gabbiano

In realtà, i veri signori delle aree lagunari sono, per la loro grande plasticità adattativa, i gabbiani. Tre sono le specie qui facilmente osservabili: il grande gabbiano reale mediterraneo (Larus michaellis), il gabbiano comune (Larus ridibundus) e il gabbiano corallino (Larus melanocephalus).

Meno evidenti sono le presenze della fauna cosiddetta “minore”. I gradienti di salinità vengono mal tollerati dagli anfibi, rane verdi a parte, ma non costituiscono un problema per i rettili come le bisce d’acqua e il biacco (Hierophis viridiflavus carbonarius), che così comunemente s’incontra lungo gli argini.

Valle Millecampi: una proposta di gestione

La direttiva 92/43 dell’Unione Europea, meglio nota come direttiva Habitat, il cui scopo è la conservazione della biodiversità nel territorio dell’Unione quale risorsa per uno sviluppo sostenibile, istituisce la Rete Natura 2000, cioè un complesso di aree significative ai fini del perseguimento degli obiettivi che la direttiva stessa si pone. Il territorio veneto è costellato di queste aree e, tra le più estese, vi sono il Sito d’Importanza Comunitaria della Laguna medio-inferiore di Venezia e la Zona di Protezione Speciale delle Valli e delle Barene della Laguna medio-inferiore di Venezia. Entrambi questi riconoscimenti ricadono sul territorio lagunare che comprende Valle Millecampi, una delle più ampie valli semichiuse della laguna veneta.

Valle Millecampi è costituita in prevalenza da barene, velme e motte, utilizzate un tempo per la vallicoltura, ma che oggi presentano un grave stato d’abbandono e di degrado. L’attività economica che qui si svolgeva, la vallicoltura estensiva, corrisponde a quella gestione di queste aree lagunari che ne hanno permesso nei secoli la conservazione e su cui si sono sviluppate le culture locali e condizioni ambientali peculiari, ottimali per i rispondere ai requisiti di molte specie vegetali ed animali che dipendono dagli ambienti salmastri. La persistenza delle peculiarità biologiche di questi luoghi è ciò che ha condotto al riconoscimento su parametri internazionali della loro importanza a fini conservazionistici. È vero però che il loro abbandono ed il degrado che ne consegue ne possono compromettere la qualità. L’aver sottoscritto le direttive di cui sopra e l’aver individuato queste aree di tutela pone ora la necessità di intraprendere coerenti azioni finalizzate al recupero ed al mantenimento delle qualità di questo sito.

La direttiva Habitat, in effetti, prevede che per i siti della Rete Natura vengano prodotti dei piani di gestione, inoltre, viene favorita anche l’istituzione di aree protette per porzioni particolarmente significative dei siti, qual è appunto Valle Millecampi in rapporto all’intero SIC che la comprende.

Un recente lavoro, ancora inedito, della Regione Veneto, individua per ogni tipologia di SIC le vulnerabilità, gli indicatori di qualità e fornisce alcuni indirizzi gestionali generali. Queste indicazioni per Valle Millecampi, estrapolandole da quelle più generali riferite ai SIC lagunari, potrebbero essere le seguenti:

  • monitorare la qualità chimico-fisica delle acque e dei sedimenti,
  • monitorare le popolazioni di specie animali per le quali l’ambiente di Valle Millecampi risponde ai requisiti essenziali dei diversi momenti dei cicli biologici;
  • monitorare i trend delle superfici occupate da formazioni vegetali alofite;
  • istituire una fascia di rispetto (buffer zone) attorno alla Valle, in particolare, destinare alcuni ettari della terraferma adiacente a riforestazioni a fini fitodepurativi;
  • regolamentare le attività di prelievo venatorio in modo da renderle compatibili con la permanenza delle popolazioni animali selvatiche e con la fruizione turistica;
  • regolamentare le attività di pesca e raccolta molluschi, così da renderle compatibili con le esigenze trofiche delle popolazioni selvatiche e il mantenimento degli habitat acquatici.

Tutte queste attività necessitano di un organismo responsabile, che le coordini ai fini della conservazione e dello sviluppo sostenibile. Tale ente gestore potrebbe trovare sede presso uno dei casoni presenti nella Valle. Il recupero di questi edifici coincide anche con il recupero di segni della storia e dell’identità locale, costituendo dunque un vantaggio sociale per la comunità locale e una risorsa per il turismo.

Le stesse attività produttive che nella Valle possono trovare collocazione, quali caccia, pesca, raccolta di erbe lagunari, birdwatching, conducono ad un recupero delle attività tradizionali e dei modi tradizionali di condurle, ma con una nuova prospettiva, quella cioè di recuperare l’identità e spenderla poi nell’offerta turistica di qualità. Naturalmente lo stesso turismo potrebbe risultare fattore d’impatto e, per tal motivo, va assoggettato a monitoraggio, regolamentazione, in modo da condurlo nella via della sostenibilità.

Boschi residui, aree agricole e centri urbani

Le basse pianure venete erano un tempo occupate da formazioni boschive ampie, se non continue. La bonifica, l’uso del legname ed il taglio a fini agricoli prima, le urbanizzazioni e le infrastrutturazioni poi, hanno ridotto questi ambienti a piccole chiazze. Le formazioni boschive oggi restanti si localizzano in alcuni tratti ripariali e su alcuni dossi alluvionali. La diversa collocazione origina differenti tipologie vegetazionali. Il bosco ripariale è di tipo igrofilo, quello sui dossi tendente al mesofilo. Comunque sia, i popolamenti faunistici che li caratterizzano non sono poi così differenziati, dato che i requisiti ecologici degli animali sono per lo più legati a distinguo strutturali più che di associazione vegetazionale, soprattutto in condizioni di carenza di possibilità di scelta; come dire: l’importante è che sia bosco, non importa il tipo.

Asio otus
Gufo comune (Asio otus)

Un interessante esempio di relitto boschivo è il Bosco di Via Breo, a Piove di Sacco. Studi recenti, di cui alcuni ancora in corso, rivelano in esso presenze faunistiche interessanti, anche da un punto di vista conservazionistico. Questo relitto boschivo funge da elemento attrattore per specie fortemente dipendenti da esso, in particolare alcune specie d’uccelli silvicoli, che si distribuiscono secondo la zonizzazione verticale della vegetazione. Adattissima a confondersi con i colori della lettiera è la beccaccia (Scolopax rusticola), mentre gli alti fusti sono frequentati dal gufo comune (Asio otus), dal picchio rosso maggiore (Dendrocopos major) e dal colombaccio (Columba palumbus). Al livello intermedio, quello degli arbusti, troviamo invece specie quali la capinera (Sylvia atricapilla), la cinciallegra (Parus major), il codibugnolo (Aegithalos caudatus), il piccolo scricciolo (Troglodytes troglodytes) ed il vistoso rigogolo (Oriolus oriolus).

Come sottolineato in introduzione, il territorio della Saccisica presenta oggi una matrice agricola. Questo tipo d’ambiente, se legato a produzioni monoculturali e all’estensivo, presenta livelli molto bassi di biodiversità, dipendenti proprio dall’omogeneizzazione ambientale e dalla banalizzazione ecologica. A viverlo sono specie opportuniste, di grande flessibilità ecologica, o specie che nei coltivi trovano dei surrogati dei loro habitat d’elezione. Di certo non mancano i roditori, favoriti dalle colture cerealicole, come ad esempio il ratto nero (Rattus rattus) e il surmolotto (Rattus norvegicus), così come anche i topi selvatici (Apodemus sylvaticus), il topo domestico (Mus musculus) e la nutria (Myocastor coypus), che insiste anche su culture orticole. Di conseguenza troviamo specie che di queste sono potenziali predatrici: la donnola (Mustela nivalis), la volpe (Vulpes vulpes); rapaci diurni come la poiana (Buteo buteo) e il gheppio (Falco tinnunculus), e notturni come la civetta (Athena noctua) e il barbagianni (Tyto alba). Molti di questi trovano rifugio lungo gli argini delle scoline e presso i rustici.

Migliore è la situazione laddove si sono conservate le siepi di margine. Oltre alle specie suddette, infatti, questi ambienti, che ripropongono in parte le opportunità offerte dall’ambiente boschivo, sostentano una maggior varietà d’invertebrati su cui si differenziano le specie insettivore, sia di micromammiferi, con specie quali il riccio (Erinaceus europaeus), la talpa (Talpa europaea), i toporagno (Sorex sp.) e le crocidure (Crocidura sp.), sia di uccelli come l’averla piccola (Lanius collurio) e il torcicollo (Jynx torquilla). Favoriti sono anche il cardellino (Carduelis carduelis), il verdone (Carduelis chloris) e il verzellino (Serinus serinus). Lo sono anche perché il fitto della siepe li mette parzialmente al sicuro da attacchi da parte d’opportunisti quali le gazze (Pica pica) e le cornacchie grigie (Corvus corone cornix).

Hirundo rustica
Rondine (Hirundo rustica)

Rispetto all’ambiente agrario in cui si disperdono, le aree urbane della Saccisica offrono spesso alla fauna non troppo esigente diverse opportunità di rifugio e alimentazione. Soprattutto tra gli uccelli è diffusa l’abitudine di sfruttare la minor presenza di predatori e, d’inverno, la protezione offerta dalle intemperie, che gli edifici offrono. Ancor meglio se gli abitati sono intervallati da parchi e giardini. Alcune specie sono così legate all’uomo da definirsi sinantropiche. Chiari esempi ne sono il passero domestico (Passer italiae), la rondine (Hirundo rustica), il balestruccio (Delichon urbica) e il rondone (Apus apus). Queste ultime tre specie usano gli edifici per nidificare come farebbero in natura con le pareti rocciose. Tale surrogato viene apprezzato anche dalla lucertola dei muri (Podarcis muralis). Comuni sono anche gli storni (Sturnus vulgaris), i merli (Turdus merula) e le tortore dal collare (Streptopelia decaocto), specie, quest’ultima, che sottrae via via spazi alla tortora (Streptopelia turtur). Queste specie, come anche i topi e i ratti che mai mancano, sono risorsa per predatori quali la civetta e il barbagianni. Non è infrequente nemmeno trovare specie meno scontate, come il rospo smeraldino (Bufo viridis), che attende gli insetti sotto i lampioni, sfuggiti al sonar dei pipistrelli (Pipistrellus pipistrellus).

 

Bibliografia di approfondimento

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