Tecnica costruttiva del casone veneto

di Paolo Monetti e Paolo Zatta*

Introduzione

E’ stato ipotizzato che, in base alla disponibilità dei materiali naturali impiegati, la tipologia costruttiva del casone veneto possa risalire a quella delle abitazioni dei villaggi neolitici dei primi uomini che popolarono il Veneto. Pur non conoscendo l’epoca in cui per la prima volta fu realizzata una costruzione assimilabile al casone nei territori perilagunari, tuttavia, si pensa di poter ipotizzare che essa fosse fondamentalmente costituita da un tetto a due falde appoggiato sul terreno. Una struttura primitiva quindi, improvvisata nella tecnica costruttiva, ma che utilizzava gli stessi materiali poveri presenti nelle nostre aree palustri. Capanni di questa forma, anche se integrati da materiali moderni quali fogli di nylon, lamiere ondulate, cemento-amianto e vetroresina e altro ancora, si possono vedere ancor’oggi in alcune isole della Laguna veneta. Costruzioni, nella loro essenzialità molto simili ai casoni, vennero realizzate prima del IV sec. d.C. con lo scopo di mettere al riparo attrezzi o come rifugi provvisori per cacciatori e pescatori che frequentavano l’ambiente lagunare.

La difficoltà nel proporre una datazione credibile dipende dalla scarsità dei reperti ritrovati per la deteriorabilità dei materiali da costruzione, per gli agenti bioclimatici, almeno fino a quando il tetto non fu sollevato da terra con un perimetro murario. Tuttavia la documentazione pittorica risalente all’ epoca pre-rinascimentale, che comunque lascia la possibilità di intuire la natura dei muri perimetrali, ci conforta nell’ipotesi temporale, tuttavia non siamo a conoscenza di altre documentazioni che possano attestare ritrovamenti di resti di palizzate formate da rami confitti nel terreno e intrecciati con rametti di salice e rinforzate da “intonaci” di fango.

Il casone come tipologia edilizia

Il casone, quindi, nato come ricovero temporaneo, costruito con materiali “poveri”, come cannuccia palustre (Phragmites australis (Cav.) Trin)[1], paglia (intesa sia come steli di frumento o di altri cereali coltivati, sia come foglie e fusticini di erbe palustri) e fango, e caratteristici di zone paludose si evolse nei secoli, dal punto di vista della tecnologia dei materiali, con l’impiego di mattoni cotti al sole, ricoperti da intonaco di calce a sostituire ramaglie e tavolame con cui si realizzavano in precedenza sia le pareti che le chiusure verticali. L’edificio originariamente era privo di camino, e il fumo prodotto dal fuoco posto al centro stanza, sfuggiva attraverso il tetto depositando sulle superfici fredde delle cannucce, giorno dopo giorno, straterelli di catrame che miglioravano l’impermeabilità e aumentavano la durabilità dei vegetali resi così, meno aggredibili dagli insetti e meno permeabili alla condensa del vapore acqueo.

Tuttavia, anche quando il fuoco fu confinato in un camino, una parte del fumo circolava comunque per la casa sia all’inizio della combustione, a cappa fredda, sia quando il vento non soffiava dalla direzione favorevole.

Casone veneto

Malgrado le trasformazioni tecnologiche del casone, le falde del tetto, dal punto di vista tipologico, restano sostanzialmente immutate rispetto all’iconografia tramandata sia dai grandi pittori veneti del Cinquecento come Giovanni Bellini, Vittore Carpaccio, e numerosi minori, sia dalle mappe storiche e dai cartografi della Serenissima; infatti, la copertura rimane evidentemente immutata, anche se alcuni elementi del tetto, originariamente realizzati con legnami autoctoni furono, poi, sostituiti da materiali originari delle nostre Alpi e Prealpi per la loro maggiore durabilità[2] e fibratura[3] dritta quando disponibilità del legname sul mercato e il prezzo divennero accessibili anche alle famiglie meno abbienti.

Lo sviluppo e le conoscenze tecniche modificarono in parte l’aspetto di queste “primitive”: tipiche abitazioni rurali dal nucleo originario in legno, prende forma una costruzione composita costituita da una struttura in muratura, destinata all’abitazione, e da una struttura in legno e canna palustre destinata a fienile, molto diversa dall’iconografia citata in precedenza.

Questa trasformazione non stravolge il sistema aggregativo dei vari ambienti, perché la tipologia del “casone” non era stata generata e condizionata dalla tecnica costruttiva, ma corrispondeva a esigenze abitative legate al territorio, alle tradizioni e ai rapporti consolidati di una società patriarcale.

Dal punto di vista tipologico, il casone padovano presenta una pianta quadrangolare[4]: la cucina disposta sempre “sottovento” per favorire la fuoriuscita dei fumi in maggior sicurezza[5], è collegata all’ingresso[6] disposto in posizione centrale e fulcro di tutta la distribuzione interna.

Tutti gli altri ambienti vengono disposti a spirale, dall’ingresso si accede alla cucina, alla stalla e alle camere: quest’ultime si adattavano alle esigenze del nucleo familiare e in genere andavano da un numero di una a un massimo di quattro.

A differenza dei casoni trevigiani, la cui pianta risulta sviluppata lungo una linea orizzontale che parte dalla cucina e termina nella stalla-cantina passando per le camere, la struttura a “spirale” dei casoni padovani complica la possibilità di ampliamento sia in termini distributivi, che costruttivi. Mentre, infatti, l’ampliamento del casone trevigiano avviene semplicemente aggiungendo una nuova stalla alla costruzione preesistente, trasformando la vecchia stalla-cantina in camera, nel casone padovano la pianta quadrangolare vincola la possibilità di espansione non solo della parte “abitativa”, ma anche del tetto, che per funzionare, malgrado la relativa impermeabilità, deve poter avere delle falde molto inclinate. Infatti, le falde formate da mannelli di canna palustre accostati e legati all’orditura, essendo per loro natura facilmente permeabili, devono avere una pendenza accentuata per garantire lo sgrondo delle acque meteoriche senza infiltrazioni e per poter essere facilmente asciugate dall’aria, dal vento e dal sole.

Inoltre nel padovano come nel veneziano, i casoni non raggiungevano mai l’altezza di due piani (anche se il capiente sottotetto adibito a fienile in taluni casi poteva essere abitato più o meno stabilmente), perché dal punto di vista tecnico la costruzione sarebbe diventata più complessa e avrebbe dovuto avere un vano scala o una scala di facile accesso al piano superiore, oltre a pareti e solai opportunamente dimensionati per sopportare carichi concentrati e non, come il fieno, diffusi.

I casoni padovani trovano storicamente la loro ragion d’essere nella spinta di un nuovo modello di sfruttamento del territorio, conseguente alle opere di bonifica e quindi allo sviluppo dell’agricoltura, prima secondo modelli insediativi delle Congregazioni monastiche benedettine, e, poi, con l’espansione in “terraferma” della Serenissima Repubblica.

Casone veneto

La costruzione del casone costituiva sempre un’operazione molto onerosa per le possibilità economiche della famiglia del colono, anche se l’uso dei materiali trovati in loco, consentiva un risparmio e un sicuro approvvigionamento per l’opera di manutenzione a cui doveva essere continuamente sottoposto. All’economia di denaro corrispondeva un forte dispendio di tempo di lavoro.

Il casone è una struttura estremamente “fragile” e necessita di una continua manutenzione per sostituire o riparare anche interi elementi strutturali deteriorati dal tempo, dai parassiti del legno o dagli eventi meteorici violenti.

Indubbiamente la parte che richiedeva più cure era proprio il tetto in canna palustre: esso doveva essere continuamente “pettinato” e pulito sia per evitare per ristagno di umidità, o il formarsi di muffe o, addirittura di muschi, sia per l’attacco di insetti in caso di eccessiva siccità, sia, infine, per il formarsi di buchi a causa del vento.

Pur nella sua semplicità costruttiva, il casone era soggetto a norme costruttive che si tramandavano di generazione in generazione: l’ orientamento era fondamentale per proteggere le piccole aperture dai venti dominanti e per beneficiare dell’azione del sole.

Un ottimo orientamento era quello ottenuto con un asse nord-est sud-ovest ma non sempre era possibile in quanto il casone veniva costruito in aree di terreno incolto e scarsamente produttivo, o lungo canali e strade di distribuzione interna al latifondo di pertinenza.

La conoscenza dei venti dominanti era fondamentale per cercare di limitare il rischio d’incendio, un fenomeno a cui il casone era frequentemente sottoposto; infatti il vento era capace di aspirare una favilla ancora accesa dal camino, favorendo, poi, la combustione delle foglie di cannuccia, dei mannelli e dell’intero tetto ligneo.

Singolare perciò, risulta lo sviluppo tecnologico del camino che, pur nella semplicità costruttiva, consentiva attraverso una forma consolidata e tramandata a tutt’oggi, di evacuare i fumi in qualsiasi condizione climatica e con lapilli praticamente spenti, proprio per evitare la possibilità di incendio.

 Le fasi costruttive di un casone padovano

Per quanto detto, la parte più importante e caratteristica del casone, tramandata oggi dalla memoria storica, è, senz’altro, la copertura che rappresentava la parte più delicata e impegnativa.

Sul perimetro edilizio edificato, almeno in passato, con mattoni cotti al sole,[7] completo delle aperture e dei rispettivi architravi,[8] viene adagiato un rettangolo di travi, tra loro immaschiate, sulle quali vengono innalzate le prime due travi a cavalletto, anch’esse preparate per i reciproci appoggi a incastro; alla loro estremità viene collegata la grande trave di colmo e, una volta legate le prime tre giunzioni, vengono incastrate tra loro e con la trave di colmo le due travi del secondo cavalletto e, infine, sollevate e inserite ai vertici dell’altro lato. Ottenuta questa specie di cavalletto costituito dai quattro travi obliqui e dalla trave di colmo, si procede con incavi e legature a disporre l’orditura principale, la trama e l’orditura secondaria (si veda la successione di immagini riportata nei trasparenti); orditi e trama costituiti da rami dritti di specie varia, ma locale (salice e pioppo), per formare il graticciato sul quale disporre i mannelli di cannuccia. È importante rilevare che non veniva fatto uso di chiodi, e che i pochi rinvenuti nelle intelaiature sono esclusivamente moderni, di quelli prodotti a macchina.

Come si è visto la costruzione del tetto prevede una tecnica preordinata e consolidata nel tempo: delle rudimentali e appena abbozzate scanalature consentono l’incastro di tutti gli elementi dell’orditura principale che viene poi fissata con cordame di produzione domestica[9]. Successivamente sull’intelaiatura del coperto sono legati i mannelli di canna palustre con la base legata e incastrata tra sottostretturi e stretturi”[10].

La scelta e l’uso dei materiali

Attraverso il prelevamento di campioni dalla struttura lignea del casone si è provveduto a effettuare le sezioni canoniche indispensabili per la determinazione xilotassonomica[11]; le osservazioni sulle caratteristiche anatomiche del legno evidenziate al microscopio, hanno consentito di riconoscere quasi sempre le specie vegetali di provenienza del campione. Solo nel caso di specie anatomicamente molto simili tra loro (es. i generi Salix L. e Populus L.) la determinazione si arresta al genere.

Casone veneto

Nello specifico i prelievi[12] hanno consentito di individuare le specie legnose di appartenenza dei vari campioni. Da essa si è potuto notare chiaramente la predominanza nell’uso di abete rosso (Picea abies Karst.)[13] per la costruzione della struttura principale del tetto a contatto con la muratura, l’impiego di olmo campestre (Ulmus minor Mill.)[14] per l’orditura del tetto, mentre per i divisori tra le varie stanze, sono utilizzate tavole accostate di pioppo (Populus cfr. nigra L. e P. alba L.)[15]. Solamente l’abete rosso non è autoctono in pianura, ma proviene dalle nostre Alpi dove occupa il piano altitudinale compreso tra i 900 e i 1800 metri s.l.m. mentre in pianura viene coltivato da circa un secolo nei giardini e per festeggiare il Natale.

Pur nell’apparente semplicità costruttiva, il casone veniva realizzato con materiali che rispondevano a determinate caratteristiche meccaniche di robustezza o di flessibilità, di resistenza o di leggerezza.

L’impiego del legname nell’impalcato della copertura era in olmo, legno di forte fibratura lineare per gli elementi verticali, mentre l’abete rosso era destinato a quelli orizzontali; il pioppo, invece, era impiegato solo per le parti non strutturali di collegamento in punti riparati dagli agenti atmosferici[16].

L’olmo dunque era usato, grazie alle dimensioni disponibili, alla qualità del legno e alla relativa facilità di reperimento, per la struttura portante. Si tratta di un legno pesante e compatto che si adatta bene a incastri e intagli per sostenere i cavalletti principali.

La leggerezza e le buone qualità meccaniche dell’abete rosso  ne consigliano l’uso per la controventatura nonché in giunzioni, intagli e chiavi: caratteristiche queste esaltate dalla discreta capacità di resistere agli attacchi di insetti xilofagi e di funghi per la presenza, anche se non eccessiva, di canali resiniferi.

Infine il pioppo, specie caratteristica della Pianura padana, era impiegato in opere di rifinitura interna, purché lontano e al riparo dall’umidità che lo avrebbe deformato e deteriorato rapidamente. La rapida crescita ne favoriva la leggerezza e l’elasticità, per cui questa pianta veniva impiegata per la produzione di tavolati e travi rompitratta.

In sintesi appare chiara l’esistenza di una conoscenza sperimentale tramandata nei secoli dai “casonieri”, cioè da quei costruttori specializzati che provvedevano anche alla continua manutenzione dei casoni.

Malgrado le poche comodità offerte a chi abitava il casone, la vita insalubre che vi si conduceva, esposta a ogni tipo di rischio, incendio, crollo, perdita della copertura, precarietà dell’isolamento e tanta umidità, alla luce di queste osservazioni deve essere considerato come un elemento caratteristico di un territorio e di una civiltà rurale. I limiti culturali ed economici di queste popolazioni, tuttavia, non hanno impedito loro di realizzare per sé e la propria famiglia un tetto sulla testa semplice e povero, ma pensato sfruttando al meglio quei materiali facilmente disponibili, poi evoluto e “codificato” da norme consolidate dalla tradizione ma, ormai, a rischio di definitivo oblio.

 

*Al presente articolo hanno contribuito anche il prof. Patrizio Giulini e l’arch. Luca Baldan. Inoltre il tema qui trattato è stato sviluppato in termini più tecnici nel volume “Ambiente e Natura in Saccisica e dintorni”, a cura di P.Zatta, edito dalla Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco nel 2005.

NOTE

[1]  Come si sa il nome volgare è, spesso, equivoco; riportiamo, quindi, anche il nome scientifico, completo di autore, come è previsto dal codice nomenclaturale internazionale.

[2]  La durabilità è per definizione la capacità di un legno a resistere all’azione degli agenti esterni.

[3]  La fibratura di un legno è la disposizione degli elementi di sostegno. In anatomia del legno la fibratura lineare è in generale caratteristica dei legni delle conifere.

[4]  Come vedremo più avanti, aree venete diverse presentano tipologie diverse del casone.

[5]  Quando, e dove possibile, era posta a sud-ovest del casone.

[6]  A volte era costituito anche da un piccolo portico.

[7]  A tutt’oggi sono ancora numerose le case bracciantili risalenti anche al Sei e Settecento che scopriamo realizzate almeno nelle parti più antiche con mattoni a mano di questo tipo.

[8]  Storicamente farnia (Quercus ribur L.), talvolta olmo campestre (Ulmusminor L.) e l’americana robinia da noi detta, anche, cassia (Robinia pseudoacacia L.).

[9]  Ricavato dall’intreccio delle lunghe foglie lineari di lisca maggiore, chiamata anche mazza sorda, (Typha latifolia L.) e di coltellaccio maggiore (Sparganium erectum L.), entrambe provviste di abbondante tenero parenchima aerifero che le rende flessibili (quindi attorcigliabili), ma con numerose nervature parallele, circondate da guaine di fibre lignificate molto resistenti, o dalla pianta in toto di carici (prevalentemente Carex pendula L., C. pseudocyperus L. e C. riparia Curtis) e giunchi (Juncus effusus L., J. conglomeratus L., J. inflexus L. e, in prossimità del mare, J. acutus L., J. litoralis C. A. Meyer e J. maritimus Lam.) ritorte e, poi, intrecciate tra loro. Già la decisione sull’uso percentuale delle prime due rispetto a carice e giunco, e del rapporto di queste tra loro, condizionava la “tenuta” della corda sulle travi; infatti le corde di mazza sorda sono lisce e poco abrasive, possono quindi scivolare; la presenza soprattutto di carici rendeva la treccia ruvida, quindi di ottima presa sulla trave. Coltellaccio e lisca maggiori venivano preferite ritorte per intrecciare i sedili delle sedie.

[10]  In genere nei casoni il pavimento era originariamente di argilla stesa accuratamente e lisciata con uno straccio bagnato; solo in seguito con il miglioramento delle condizioni economiche, si impiegarono tavolati e mattonelle.

[11]  Le sezioni “canoniche” per il riconoscimento della specie di appartenenza di un legno sono tre: una trasversale rispetto all’asse di crescita, e due longitudinali rispetto allo stesso asse, e orientate sia secondo un piano tangenziale rispetto all’anello di accrescimento, sia secondo un piano radiale (cioè diretta dal perimetro esterno e passante per il centro reale, o ipotetico, del tronco).

[12]  Le osservazioni e le immagini fotografiche ottenute al microscopio ottico o a scansione vengono poste a confronto con campioni standard e utilizzando opportune chiavi analitiche dicotomiche (Greguss, 1955; Greguss, 1959)  e chiavi semplificate (Schweingruber, 1978).

[13]  Il legno di abete rosso è, come tutte le conifere, omoxilo, cioè formato da elementi assiali tra loro uguali, anche se con parete più o meno ispessita; la specie, in particolare, è provvista di canali resiniferi sia assiali sia orizzontali inseriti all’interno dei raggi midollari.

[14]  L’olmo è un’angiosperma, pertanto il suo legno è eteroxilo, cioè formato da anelli annuali con vasi primaverili di lume ampio, talvolta appaiati, e con abbondanti isole di fibre disposte a bande nel legno tardivo; i raggi legnosi sono formati da 3-5 ordini di cellule.

[15]  Anche il pioppo è un’angiosperma; le caratteristiche anatomiche di questo gruppo sistematico, evolutosi in ambienti particolarmente umidi, sono piuttosto omogenee con legno a porosità diffusa e raggi legnosi omogenei e uniseriati.

[16]  Secondo la tradizione, in passato anche la trave superiore era ottenuta dal pioppo; infatti, quando nasceva un figlio si usava mettere a dimora un pioppo (dopo il Seicento il pioppo cipressino (Populus nigra L. ‘Italica’)) al fine di essere già in possesso al momento del suo fidanzamento della trave principale che garantisse l’allargamento dell’immobile; nelle more tra il fidanzamento e il matrimonio, la trave ottenuta dall’abbattimento a primavera della pianta, cioè quando essa ha esaurito le sue riserve zuccherine (altrimenti appetite dagli xilofagi), veniva opportunamente lavorata con l’ascia e trattata con il colaticcio della concimaia affinché il suo legno, non certo il migliore, ma certamente il meno costoso, fosse più durabile nel tempo.