Flora spontanea

di Cristina Villani

È opinione comune che le zone di pianura non offrano, ai giorni nostri, che scarsi e sporadici spunti d’interesse per quanto riguarda la flora spontanea, la fauna e la vegetazione. Sicuramente agli occhi di un osservatore che avesse attraversato la pianura padovana qualche centinaio d’anni fa si sarebbe presentato un paesaggio assai diverso da quello odierno, con un’impronta antropica meno marcata. In quell’epoca le aree urbane e gli insediamenti produttivi non si erano ancora espansi ad occupare vaste superfici, rubando porzioni di territorio all’agricoltura, il fitto intreccio delle vie di comunicazione non solcava la pianura con una rete così capillare di strade, e autostrade, l’agricoltura stessa, gestita con metodi a minor impatto, non aveva ancora condizionato qualitativamente e quantitativamente il paesaggio.

Ancora più a ritroso nel tempo, prima della colonizzazione umana, l’intera pianura padano-veneta si presentava prevalentemente coperta da maestose foreste di latifoglie, compositivamente diversificate soprattutto in funzione della disponibilità d’acqua nel terreno. Oltre alla farnia (Quercus robur L.), considerata la dominatrice di tali foreste, fra le specie arboree più rappresentate vanno annoverate l’olmo campestre (Ulmus minor Miller), il frassino (Fraxinus sp.pl.), il carpino bianco (Carpinus betulus L.). Con l’arrivo dell’uomo iniziò anche il disboscamento sistematico di vaste estensioni di foresta planiziale che, in epoca romana, subì la prima importante accelerazione. I suoli produttivi precedentemente occupati dal bosco furono utilizzati a fini agricoli. Con la centuriazione si compì il primo passo verso il moderno assetto del territorio. Nel corso dei secoli all’eliminazione del manto forestale si aggiunsero le bonifiche delle zone umide, la selezione delle specie più produttive, con frutti o semi eduli, la loro coltivazione su vasta scala, che comportò, oltre alla sottrazione di estese aree alla vegetazione spontanea, anche l’utilizzo di diserbanti, mezzi meccanici.

Ai giorni nostri si è registrata una preoccupante diminuzione della biodiversità ai vari livelli.

Ogni singola tessera del paesaggio manifesta oggi la secolare attività dell’uomo nell’organizzare il territorio e rimodellarlo a proprio beneficio. Tuttavia a chi osserva la “monotona” e antropizzata pianura con sguardo attento si svelano piccole e preziose presenze che rendono attraente il paesaggio rurale. Qui domina la cosiddetta flora sinantropica, cioè l’insieme delle specie vegetali che sono strettamente legate alla presenza dell’uomo, insediatesi fra le specie coltivate, ai margini delle strade, sui cumuli di macerie,nelle zone urbane.

Quelle cerealicole furono e sono sicuramente le coltivazioni più frequenti nella pianura padovana. Fino al XII secolo furono privilegiati frumento, segale, orzo, miglio, panico e sorgo, coltivati in campi aperti; a metà del 1600 fece la sua comparsa il mais che attualmente, con la soia e la barbabietola, ha assunto un ruolo di primo rilievo nella campagna coltivata. L’introduzione del granoturco e lo sfruttamento intensivo dei campi comportò ingenti trasformazioni non solo nel sistema agrario, con l’abbandono della tradizionale rotazione delle colture, la necessità di praticare la concimazione minerale e il diserbo selettivo, ma anche in relazione all’alimentazione dell’uomo e del bestiame e all’edilizia rurale, poiché si resero necessari spazi per l’essiccazione e la conservazione del raccolto. La meccanizzazione delle operazioni agricole richiese anche il riassetto idraulico-agrario dei campi, che fosse funzionale anche a una disponibilità d’acqua per l’irrigazione. Nonostante tutti gli sforzi per ottimizzare la resa produttiva, i coltivi conservano ancora importanti aspetti di “naturalità”.

Se osserviamo con attenzione un campo di frumento o di mais vediamo che non si tratta di una piatta distesa di culmi tutti uguali, ma, assieme alla specie coltivata ne convivono altre, che in genere sono indicate come “erbacce” o “infestanti”. Questi epiteti indicano come l’agricoltore poco apprezzi la concorrenza che esse esercitano nei confronti della specie coltivata, ma si tratta di piante dotate di un loro fascino.

Per poter sopravvivere queste “ospiti” dei campi hanno sincronizzato il loro ciclo biologico con quello delle specie messe a coltura: si sviluppano molto velocemente e sono in grado di liberare i loro semi prima della mietitura o in concomitanza con questa, in modo da mescolarli con le cariossidi o i semi delle piante coltivate. Nel caso dei cereali a semina autunnale o primaverile, ad esempio, le infestanti fruttificano all’inizio dell’estate, nel caso del mais germinano in primavera e disseminano in tarda estate.

Le specie messicole condividono con la pianta coltivata anche la provenienza: nel paese d’origine occupavano lo stesso ambiente e le hanno seguite nel percorso fino a noi, facendosi trasportare mescolate ai semi utili. I diversi tipi di frumento, l’orzo e i cereali che sono coltivati in Europa fin dalla preistoria sono giunti in Europa dalla cosiddetta area della mezzaluna fertile, corrispondente alle praterie steppiche dell’Asia minore. Al loro seguito appartiene un ricco corteggio di specie erbacee, quelle stesse che colorano i campi all’epoca della maturazione dei cereali. Viene usato per queste specie di introduzione antichissima il termine di archeofite, contrapposto a quello di neofite che indica invece le esotiche di importazione più recente, provenienti dal Nuovo Mondo, le Americhe, al seguito del mais.

Papaver rhoeas L.
Papavero (Papaver rhoeas L.)

Fra le archeofite il più diffuso nelle nostre zone è il papavero (Papaver rhoeas L.) con i suoi vistosi fiori rossi. Il connubio papavero-frumento ha radici molto antiche: i latini raffiguravano Cerere, la dea delle messi, cinta da corone di questi fiori dai colori fiammeggianti. Del papavero vengono apprezzate a tavola le porzioni verdi: le “rosole” corrispondono alle tenere foglie basali, che formano fitte rosette, che vengono raccolte e consumate all’inizio della primavera, prima che la pianta allunghi il fusto fiorifero. Al papavero si associano frequentemente i capolini gialli e bianchi della camomilla (Matricaria chamomilla L.), le cui proprietà antinfiammatorie e sedative erano note fin dall’antichità classica, anche se si deve precisare che col termine di “camomilla” vengono raggruppate specie diverse con proprietà e aspetto simili.

Più piccole ma molto colorate sono le corolle a cinque petali delle anagallidi: quelle dalla mordigallina (Anagallis arvensis L.) possono essere rosso-arancio intenso, bianchi, violetti o blu, addirittura con fiori di colori diversi sullo stesso fusto, sempre e solo blu quelle del centonchio azzurro (Anagallis foemina Miller) che vive negli stessi ambienti della specie congenere.

Ranunculus arvensis L.
Ranuncolo dei campi (Ranunculus arvensis L.)

Di modeste dimensioni ma notevole bellezza è pure lo specchio di Venere (Legousia speculum veneris (L.) Chaix) dal fiore violetto, che spicca fra le corolle gialle del ranuncolo dei campi (Ranunculus arvensis L.), dai frutti coperti da uncini, e della violetta dei campi (Viola arvensis Murray).
Dall’America tropicale sono immigrate in Europa con il granoturco la galinsoga comune (Galinsoga parviflora Cav.) e alcuni amaranti (Amaranthus sp.pl.). Ai margini dei campi di mais possiamo osservare la porcellana (Portulaca oleracea L.), con fusti e foglie sdraiati e carnosi, dalla quale i vivaisti hanno saputo selezionare varietà ornamentali con corolle ampie e colorazioni vistose. Nello stesso habitat vegeta anche l’acetosella minore (Oxalis fontana Bunge), con le foglie che talvolta assumono un color vinaccia, e l’acetosella dei campi (Oxalis corniculata L.), le cui foglie assomigliano a quelle del trifoglio. Le acetoselle sono ricche di acido ossalico che conferisce loro un particolare gusto acidulo; le foglie tendono a chiudersi di notte o in caso di pioggia e assumono una posizione pendula.

La diffusione delle specie messicole è attualmente molto più ridotta che in passato, quando erano utilizzati diserbanti meno selettivi e la ripulitura delle sementi era meno accurata. Alcune sopravvivono in ambiti particolari, relegate ai margini di strada e alle aree temporaneamente incolte. Altre sono ormai quasi completamente scomparse dal territorio padovano, quali il bellissimo fiordaliso azzurro (Centaurea cyanus L.), la nigella (Nigella damascena L.), le rosse adonidi (Adonis annua L., Adonis aestivalis L.), la graziosa speronella (Consolida regalis S.F.Gray), il tulipano selvatico (Tulipa sylvestris L.), il gladiolo dei campi (Gladiolus italicus Miller) che sopravvivono in alcune località dei vicini Colli Euganei, dove l’agricoltura è improntata con sistemi più tradizionali.

Legate ai campi di mais sono alcune graminacee di grande taglia, quali il giavone comune (Echinochloa crus-galli (L.) Beauv.), introdotto in Italia con i semi del riso, la sanguinella comune (Digitaria sanguinalis (L.) Scop.), il sorgo selvatico (Sorghum halepense (L.) Pers.), che trovano le condizioni adatte alla loro vita nell’ambiente ombreggiato e con discreto tasso di umidità, che si viene a creare quando gli alti culmi di granoturco raggiungono il completo sviluppo vegetativo. Queste infestanti sono accomunate non solo dalle esigenze ecologiche, ma anche da un particolare anatomico che le rende resistenti alle sarchiature: sono dotate di rizomi sotterranei molti robusti che si approfondano nel terreno e che, se sono tranciati dalle lavorazioni meccaniche, non muoiono ma anzi producono germogli aerei e originano nuovi e numerosi individui indipendenti.

Taraxacum officinale Web.
Dente di leone (Taraxacum officinale Web.)

I margini dei coltivi, le carreggiate che attraversano la campagna, gli argini dei fossi sono ricchi di specie vegetali. Qui trovano rifugio molte piante che per motivi diversi sono escluse dagli ambienti limitrofi, come l’umile pratolina (Bellis perennis L.), che i vivaisti hanno valorizzato come pianta ornamentale selezionando varietà con capolini variamente colorati e di discrete dimensioni. La specie spontanea è meno vistosa: ogni capolino presenta un disco giallo formato da corti fiori dorati circondati da un anello di fiori bianchi, dotati di lunga ligula bianca sfumata di rosa. Altra composita che colora i campi e gli incolti con i suoi grossi capolini è il dente di leone (Taraxacum officinale Web.), chiamato anche soffione per il pappo di setole bianche portato dal lungo becco che sovrasta l’achenio. Questo efficace organo di volo permette alla pianta di disseminare a lunga distanza. Ottime sono le foglie basali che in cucina sono utilizzate in vario modo.

I bordi dei campi e delle strade in estate sono colorati dai capolini azzurri della cicoria selvatica (Cichorium intybus L.) che si aprono alle prime ore del mattino e si chiudono a metà giornata. Da questa pianta spontanea è derivato il radicchio che oggi coltiviamo, le foglie, raccolte prima della fioritura, sono commestibili, dalle radici carnose, tostate e macinate dopo l’essiccatura, un tempo erano utilizzate come sostituto del caffè. Rivolge verso il sole le sue corolle rosate a cinque petali la malva selvatica (Malva sylvestris L.) che abita nei campi abbandonati, nei margini di strada e dei campi utilizzata come pianta commestibile e per le sue proprietà officinali.

La Saccisica è arricchita dalle siepi che delimitano i coltivi e ombreggiano i fossati e i piccoli corsi d’acqua. Fin dall’epoca romana sono state un elemento fisionomizzante le zone rurali, non solo un sistema per segnare in modo tangibile i confini di proprietà, ma anche fonti di legname per l’inverno, utili per procurare la paleria di sostegno, per la produzione di bacche, di frutti di vario tipo e di piante officinali, come barriere frangivento per evitare i danni meccanici causati delle correnti troppo violente. Grazie alla loro struttura verticale complessa, a più strati, con alberi e arbusti intrecciati e la frangia erbacea sottostante, le siepi offrono ospitalità e rifugio a molti animali, vertebrati e invertebrati, e danno origine ad un ecosistema complesso. Anche se l’impiego sempre più spinto di macchinari in agricoltura tende a limitare l’estensione delle siepi, che ostacolano i movimenti dei mezzi meccanici, non è diminuito il loro valore. La siepe è fondamentale oggigiorno nella lotta biologica perché numerosi insetti che vi albergano sono predatori o parassiti di altri insetti dannosi all’agricoltura. La loro conservazione consente quindi, per mezzo di semplici equilibri naturali, un utilizzo meno massiccio di prodotti antiparassitari di sintesi.

Humulus lupulus L.
Luppolo (Humulus lupulus L.)

Fra le specie arbustive delle siepi domina il sanguinello (Cornus sanguinea L.), che spicca in inverno quando perde il fogliame e i rami assumono un’intensa colorazione rossa. Fra le specie rampicanti il luppolo (Humulus lupulus L.) si avvolge con i suoi fusti volubili attorno ai rami di alberi e arbusti. E’ conosciuto soprattutto perché le infiorescenze femminili vengono utilizzate per aromatizzare la birra, ma anche perché in primavera i germogli teneri appena spuntati da terra (i cosiddetti “bruscandoli“) vengono raccolti e consumati cotti. Ai margini delle siepi albergano molte piante erbacee, come il ranuncolo favagello (Ranunculus ficaria L.), la girardina silvestre (Aegopodium podagraria L.), un’umbellifera dai piccoli fiori bianchi, l’alliaria comune (Alliaria petiolata (Bieb.) Cavara et Grande), con grandi foglie cuoriformi dall’intenso odore di aglio, il gigaro (Arum maculatum L.) che utilizza un curioso sistema di impollinazione. L’infiorescenza è portata da un asse carnoso terminante a clava, che odora di sostanze in decomposizione ed è avvolto da una grande brattea chiamata spata. Attratti dall’odore alcuni insetti si appoggiano alla spata, cadono e rimangono imprigionati nel rigonfiamento basale per la presenza di un collare di peli rivolti verso il basso che chiude l’apertura. Qui movendosi tra i fiori maschili e femminili raccolgono il polline: solo dopo l’avvizzimento dei peli riusciranno a liberarsi e visiteranno altri fiori e depositeranno i granuli sui pistilli fecondandoli. Prenderanno poi origine i frutti dall’aspetto di bacche rosse velenosissime.

L’ecosistema rurale comprende anche il sistema di fossati e piccoli corsi d’acqua che attraversano la campagna. Qui, immersa con la base nell’acqua, è presente la mazzasorda (Typha latifolia L.), robusta pianta palustre con le foglie allungate emergenti dall’acqua e le caratteristiche infiorescenze, con le porzioni maschile e femminile separate lungo l’asse. La parte femminile, a forma di manicotto, è formata da numerosissimi fiori minuscoli, la maschile si trova alla sommità ed è costituita da fiori ridottissimi. A maturazione il manicotto femminile si disfa perché i frutti, dotati di lunghi peli, si staccano dall’asse e volano via.

Fra le piante delle zone umide il giunco fiorito (Butomus umbellatus L.) spicca con i suoi fiori di color rosa intenso, riuniti in ombrelle apicali. Le lunghe foglie presentano una forma triangolare se tagliate in sezione trasversale, i fusti sono eretti e privi di ramificazioni. Altrettanto cromaticamente vistoso è l’iris d’acqua (Iris pseudacorus L.) dai grandi fiori gialli e dalle foglie simili a lame di spada.

Anche l’ecosistema urbano, che apparentemente potrebbe sembrare poco idoneo all’espressione della vegetazione in quanto profondamente e ripetutamente modificato dall’uomo, conserva aspetti naturalistici di rilievo. Nei centri urbani possiamo trovare ambienti diversificati che vengono colonizzati da consorzi di piante altamente specializzate e adattate alle differenti caratteristiche dei siti e, soprattutto, capaci di sopportare il disturbo arrecato dall’uomo, variabile sia nel tipo che nell’intensità. Gli interstizi fra i selciati, le fessurazioni dei muri vecchi, i margini delle strade, gli accumuli di calcinacci e ruderi sono spazi in cui le piante possono insediarsi, ma non sono certamente ambienti stabili e facilmente “abitabili”. Gli interventi di ripulitura, il calpestio e il rimaneggiamento del substrato sono eventi di ricorrente disturbo e stress per la vita vegetale, ma molteplici strategie sono state evolute per farvi fronte.

Plantago lanceolata L.
Lingua di cane (Plantago lanceolata L.)

Al margine dei marciapiedi e delle strade, nei vialetti e, in genere, nei luoghi soggetti a transito, il ripetuto calpestio crea condizioni estreme per le piante, sia per i danni meccanici che esse subiscono, sia per la scarsità d’aria nel terreno dovuta al marcato compattamento. Ma grazie ai tessuti coriacei la piantaggine maggiore (Plantago major L.) e la lingua di cane (Plantago lanceolata L.) sopportano strappi e schiacciamenti e, ben ancorate con le loro radici, producono continuamente nuove foglie dalla piatta rosetta basale. La protezione offerta dalle fessure è assai utile ai tenaci stoloni della gramigna (Cynodon dactylon (L.) Pers.). Il nome del genere deriva dai vocaboli greci “kyon” e “odùs” cioè “dente di cane” perché i lunghi stoloni striscianti di questa graminacea presentano gemme di aspetto simile a canini. Poco amata dai contadini e dai giardinieri, questa infestante dalle infiorescenze rossastre è nota fin dall’antichità per l’utilizzo a scopo terapeutico delle porzioni ipogee. Anche i cani e i gatti ne apprezzano istintivamente le proprietà depurative e, quando necessario, vanno alla ricerca delle sue foglie. Le frequenti operazione di ripulitura dei selciati non ne compromettono la sopravvivenza, anzi la frammentazione degli stoloni stimola l’emissione di nuove radici e germogli, facilitandone l’ulteriore diffusione. La nicchia costituita dalle fessure dei marciapiedi è colonizzata anche da un’altra graminacea a portamento strisciante, il panico indiano (Eleusine indica (L.) Gaertner), importata dalle regioni tropicali come impurità fra i semi di specie foraggere. Nei selciati possono risultare talvolta vantaggiose anche le piccole dimensioni e l’aspetto poco vistoso, come nel caso dell’arenaria (Arenaria serpyllifolia L.) dai piccoli petali bianchi, della strisciante euforbia macchiata (Euphorbia maculata L.), che vive appressata al suolo, della minuta garofanina spaccasassi (Petrorhagia saxifraga (L.) Link) dai piccoli fiori rosati, del centonodi (Polygonum aviculare L.), che deve il nome comune alla particolare morfologia del fusto, articolato in numerosi nodi rigonfi.

Le fessure sui muretti o lo spazio ristretto tra i marciapiedi e le pareti delle case si possono definire habitat estremi per la vita vegetale. Le forti escursioni termiche cui sono soggetti nel corso della giornata, la scarsa quantità di terriccio che qui si deposita e che fornisce un limitato apporto di sostanze nutritive e, infine, le condizioni di forte aridità esplicano una severa selezione.

Parietaria officinalis L.
Erba vetriola (Parietaria officinalis L.)

Le crepe dei muri sono il regno dell’erba vetriola (Parietaria officinalis L.) che deve il nome comune all’uso tradizionale per la pulizia dei vetri. Appartiene alla stessa famiglia dell’ortica e, come questa, ha il fusto e le foglie coperte da peli uncinati, ma non urticanti. Come pianta officinale fin dall’antichità era utilizzata per i suoi principi diuretici. Ai giorni nostri è nota invece per le sue proprietà allergogene. Infatti i suoi fiori, minuscoli e insignificanti dal punto di vista estetico, producono grandi quantità di polline per tempi prolungati. Se a questo si aggiunge il fatto che vegeta in ambiente urbano si capisce come possa essere fra i più diffusi agenti di pollinosi. La produzione di grandi quantità di pollini è una prerogativa comune a tutte piante anemofile, cioè quelle che utilizzano il vento come mezzo di trasporto dei granuli. Il vento è un buon agente disperdente perché i granuli pollinici affidati alle correnti d’aria raggiungono anche territori molto lontani, ma l’anemofilia è molto dispendiosa per la pianta. Solo una piccola frazione, infatti, atterra sullo stimma e feconda l’ovulo; la gran parte non centra il bersaglio, ma si deposita sul terreno o su altre superfici ricettive. Per bilanciare tale perdita le piante anemofile devono produrre ingenti quantità di polline e più facilmente sono responsabili delle manifestazioni allergiche.

Fra le più graziose piante delle pareti va menzionato il ciombolino comune (Cymbalaria muralis Gaert., Mey. et Sch.) che drappeggia i vecchi muri con le sue foglioline ederiformi e i fiori violetti, simili a piccole bocche di leone. I fusti di questa pianta producono numerose radici avventizie che la ancorano in più punti e le permettono di sfruttare le tasche di terriccio che si deposita negli anfratti; inoltre i lunghi peduncoli che sorreggono i frutti, dopo la fecondazione, iniziano ad incurvarsi e spingono le capsule all’interno delle fessure, in modo che all’apertura del frutto i semi si depositino in un ambiente adatto alla loro germinazione.

Gli ambienti ruderali, cioè le zone interessate da depositi di macerie, le scarpate, le aree abbandonate, le massicciate stradali, sono colonizzati da specie “nitrofile”, resistenti all’elevato tenore di azoto che spesso caratterizza questi habitat. Spesso si tratta di piante dette terofite, specie erbacee a sviluppo annuale, che devono il loro successo al veloce ciclo vitale. Esse risultano concorrenziali perché occupano lo spazio e utilizzano le risorse disponibili più velocemente delle altre piante. Dopo la germinazione del seme la loro crescita è, infatti, molto rapida, raggiungono in fretta la fase riproduttiva, costruiscono un numero elevato di semi che, rilasciati sul terreno, danno il via ad una nuova generazione. Non tutti i semi prodotti inoltre geminano nella successiva stagione vegetativa, alcuni rimangono silenti ad arricchire la banca dei semi del terreno. In pratica sono programmati per germinare con una certa scalarità, assicurando la permanenza della specie anche in tempi successivi. Le specie che adottano questo modello investono la maggior parte delle loro risorse nella riproduzione e nella disseminazione. Tale tattica si è dimostrata vincente nel caso delle piante pioniere, in grado di colonizzare ex novo un’area scoperta da vegetazione. Formano spesso popolamenti densi e monospecifici, come nel caso del farinello comune (Chenopodium album L.), specie la cui commestibilità è nota fin dall’Età del Bronzo.

In altri casi risulta premiante la propagazione vegetativa, vale a dire senza semi, per mezzo di stoloni o rizomi. Questa consente un’occupazione delle spazio più duratura nel tempo, ma richiede un investimento di risorse di tipo diverso perché è necessaria la costruzione di apparati epi ed ipogei più consistenti e perennanti, a discapito della produzione di semi che può addirittura cessare per lunghi periodi. Tipico esempio è offerto dalla cinquefoglie comune (Potentilla reptans L.) che con gli esili fusti striscianti sopra il terreno copre velocemente ampie superfici. In corrispondenza dei nodi emette le radici, rendendo quindi ogni segmento potenzialmente indipendente.

Gli ambiti ruderali sono frequentemente colonizzati da specie esotiche, estranee alla flora italiana. Grazie all’intervento umano, volontario o involontario, hanno raggiunto e occupato il nostro territorio, che non rientravano nella loro area di distribuzione spontanea. L’introduzione può esser stata accidentale, quando ad esempio hanno viaggiato assieme ad altre sementi o merci trasportate, o aggrappate ai peli degli animali, oppure voluta, come nel caso delle piante usate per scopi ornamentali ma successivamente sfuggite alla coltivazione. Alcune hanno una diffusione limitata, ma altre, grazie all’assenza dei competitori che nell’area d’origine ne contengono l’espressione, hanno invaso ampi territori, sostituendosi alle specie locali.

Helianthus tuberosus L.
Topinambur (Helianthus tuberosus L.)

Fra le esotiche più frequenti nel padovano troviamo il topinambur o girasole del Canada (Helianthus tuberosus L.), che in autunno allieta i margini di strada e gli argini con i suoi capolini solari, ma di cui sono apprezzati in cucina i grossi rizomi dal sapore simile a quello del carciofo. Lungo i margini di strada è ricorrente un’altra composita, il senecio sudafricano (Senecio inaequidens DC.), giunto in Italia a metà del secolo scorso e rapidamente diffusosi grazie agli acheni leggeri, dotati di pappo, facilmente trasportabili dalle correnti d’aria. Dal Nordamerica è invece giunta la saeppola canadese (Conyza canadensis (L.) Cronq.), localmente detta “scoa salvadega“, sconosciuta in Europa fino alla metà XVII secolo, specie annuale con lunghissime pannocchie di capolini biancastri che producono centinaia di semi. Molto più decorativi sono invece i capolini della cespica annuale (Erigeron annuus (L.)Pers.), anch’essa originaria dal Nordamerica, che presentano fiori del raggio con ligule bianche e fiori del disco gialli. Ai margini dei campi di mais, soprattutto nelle zone con maggior disponibilità d’acqua, troviamo un’altra essenza americana, la forbicina peduncolata (Bidens frondosa L.). Il nome generico, che in latino significa “con due denti” è riferito ai frutti di questa pianta, dotati di due uncini con cui si aggrappano alle pellicce degli animali o alle vesti umane per farsi trasportare alla ricerca di un luogo adatto a germogliare. La lista potrebbe allungarsi notevolmente anche perché il flusso di piante esotiche è tuttora attivo e continuo, quindi gli equilibri fra le piante indigene e le introdotte sono ripetutamente modificati e condizionati soprattutto dall’attività dell’uomo.

 

Bibliografia

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