I padri benedettini e la loro attività agricola in Saccisica. Terza parte: Le produzioni agricole

di Francesco G. B. Trolese

3.1 – Chi lavorava i campi

Il lavoro era ordinariamente affidato ai conduttori dei singoli fondi. I monaci infatti di regola non risiedevano sul luogo. Facevano eccezione i tre monasteri di Polverara (S. Agnese, S. Margherita, S. Maria della Riviera), quelli di Brusadure e dei Santi Vito e Modesto a Piove di Sacco, abitato da monache. Queste comunità si dedicavano alla coltivazione diretta all’interno del recinto del brolo, mentre affidavano la lavorazione dei campi ai contadini insistenti sui fondi agricoli, o agli arsenti, vale a dire agli uomini stagionali che venivano ingaggiati nei momenti cruciali della semina, della fienagione, o della raccolta dei prodotti.

La tecnica della coltivazione della vite trasmessa dalla tradizione, consisteva, secondo quanto scritto dall’abate di San Zeno di Verona nel più volte citato documento del 895 ad uso degli affittuali di Campolongo Maggiore, nel piantare i magliuoli, nel vangare e smuovere la terra per sei anni, nel tagliare le piccole viti per tre anni vicino al suolo e nel letamarle il terzo anno. Ancora nell’Ottocento tale tecnica, vigente nella campagna padovana, era valutata come la migliore[1].

La produzione dei campi veniva dunque assicurata dai contadini i quali nel Medioevo talvolta vendevano ai monasteri i loro campi per riottenerli successivamente a livello dai medesimi enti monastici: è il caso di Brunone del fu Leone Cortese che il 29 maggio 1133 prime vendette al monastero di San Cipriano, rappresentato dal priore Rodolfo, le terre che aveva ricevuto in eredità a Campolongo Maggiore dal padre e dalla madre e successivamente lo stesso giono fu investito a livello sui medesimi fondi[2].

Tuttavia nel secolo XV, in seguito all’aumentato numero di membri delle comunità e alle esigenze loro connesse, i monasteri della congregazione di Santa Giustina (Santa Giustina, San Giorgio Maggiore, San Nicolò del Lido di Venezia e Santa Maria di Praglia), iniziarono a seguire sul campo i contadini durante le semine e i raccolti. Da allora la produzione agricola fu decisa dai cellerari, dai gastaldi e dai commessi, che organizzarono l’attività in modo razionale e intensivo, sia in fatto di raccolti che di allevamenti animali.

Svecchiarono in tal modo le consuetudini contadine e introdussero nuovi metodi e nuovi prodotti, giunti in Europa dopo la scoperta dell’America.

 

3.2 – I prodotti principali.

Un primo elenco di prodotti delle terre della Saccisica è offerto dalla concessione di un livello in affitto del 12 settembre 895 dell’abate Austreberto di San Zeno di Verona a Leudeberto del fu Leone, dove si parla di vino, lino, polli, uova, grano che dovevano essere consegnati ogni dicembre alla chiesa di San Tommaso, cioè a Corte, dove probabilmente esisteva una dimora dell’abate o di uno dei suoi rappresentanti. Lo stesso Leone doveva assicurare all’abate coi suoi messi il cibo durante la loro permanenza nel luogo, organizzare l’invio a Verona lungo i corsi d’acqua navigabili dei prodotti ricavati dalla coltivazione. Egli doveva corrispondere all’abbazia veronese la terza parte dei prodotti, mentre il vino ricavato dal torchio sarebbe stato diviso a metà[3]. Qualche anno dopo il successore di Austreberto in un contratto di affitto di terreni e case con quattro abitanti di Campolongo esigeva che le piantagioni di vite fossero incrementate e ordinava di portare alla chiesa di San Tommaso apostolo di Corte i polli e la segala convenuta[4].

L’abate del monastero di San Cipriano di Murano, dopo aver acquistato nel febbraio del 1133 dai coniugi Enrico ed Antonia una masseria situata tra Campolongo Maggiore e Corte, la cedette a livello perpetuo ai medesimi con l’obbligo della corresponsione annuale alla festa di santo Stefano (26 dicembre) di 10 soldi veronesi, di una spalla di porco e di due focacce di frumento. Gli obblighi ulteriori riguardavano la corresponsione di sei staia di biada, sei fasci di lino, metà della produzione del vino per le viti già in produzione, e un terzo per quelle che sarebbero state piantate successivamente oltre alle consuete onoranze; il tutto doveva essere consegnato nella corte di Conche, la più antica fra quelle fondate in zona dal monastero di San Cipriano, cui si aggiunsero in seguito quelle di Corte, di Lova e di Rosara[5].

Nello stesso anno 1133 a Corte le monache di San Zaccaria di Venezia chiedevano ai nuovi affittuari Viviano di Perdocima, Adalaodo suo figlio e Simeone suo cognato sette moggi di biada, metà del frumento, metà dei grani minuti, metà del vino, e per onoranze un prosciutto e due focacce[6]. Nel 1167 Giovanni del fu Simeone per 16 appezzamenti di terreno doveva dare al monastero quattro moggia e mezzo di biada, metà dei grani grossi e metà di quelli minuti, assicurando pure il vitto agli uomini che si sarebbero presentati a ritirare le merci[7]. Tali prodotti dovevano essere consegnati alla barca del monastero sull’approdo del Cornio[8]. Le monache veneziane ricavavano dai terreni di Corte frumento (tritico), vino, saggina (siligine), fava, sorgo, panico e miglio.[9]

Anche a Codevigo e a Rosara si produceva il vino, infatti il 13 dicembre 1121 l’abate Faletro del monastero della Santissima Trinità di Brondolo nel concedere a livello un’appezzamento di terreno a Leone di Ada di Pirolo mise come condizione che metà del terreno arativo concesso fosse trasformato a vigneto nell’anno in corso e l’altra l’anno successivo. La produzione sarebbe andata a regime nel sesto anno, e da quella scadenza il contadino avrebbe dovuto conferire al monastero la terza parte del prodotto[10].

Il vino prodotto dalle tenute di Correzzola nel Cinquecento era di due tipi, l’uno “molto molle essendo de vale et facile a guastarsi”, e un altro più pregiato ricavato, grazie all’abilità dei coltivatori, da uve scelte di qualità bianco e nero che veniva venduto in gran quantità a Chioggia e Venezia. Il sottoprodotto, la “graspia”, era in parte venduta e in parte data «per amor di Dio a poveri contadini et arsenti» durante i lavori nei campi[11].

Uno dei prodotti tipici della Saccisica era il lino, il quale una volta raccolto in fasci, era lavorato lungo i canali particolarmente ricchi d’acqua corrente. I produttori del territorio (Corte e Piove) dal 1005 pagavano al doge di Venezia 200 libbre di lino per non essere soggetti a dazi nell’introdurre le proprie merci nel mercato veneziano[12].

Si ha una conferma della produzione del lino da una controversia accesasi a Roncaiette il 20 agosto 1185 e conclusasi il 5 settembre successivo sul diritto di accesso ai corsi d’acqua per la lavorazione del tessile da parte della popolazione residente[13]. Una successiva vertenza del 12 aprile 1196, ci informa che da anni sui terreni del monastero di San Giorgio Maggiore prospicienti il canale di Roncajette convenivano per la lavorazione del lino gli abitanti di Saonara, Legnaro, Sant’Angelo e Campolongo di Liettoli[14].

A Correzzola la quantità del lino «spolato, filato et fatto biancho» era così abbondante che parte era inviato in abbazia a Padova, parte era venduto e parte «se fa biancheria per la corte qual abonda de belle biancherie che potria honoratamente allogiare un cardinale».[15]

Il legname, da opera e da bruciare (le fascine), era fornito dai carpini, dai frassini, dagli olmi, dagli ontani, dai pioppi, dai roveri, dai salici, dagli alberi di noce [16]; a Vallonga, ad esempio, esisteva nel 1194 «unam peciolam terre cum salgaris supra».[17]

Alla fine del Trecento i terreni di Legnaro – almeno quelli posseduti da Santa Giustina e per i quali furono rinnovati i contratti d’affitto – producevano frumento (cereale superiore) e spelta (altro cereale, di minor pregio), mentre nelle fattorie si allevavano in abbondanza i consueti animali da cortile che venivano usati dalle famiglie come merce di scambio. Lo testimoniano gli atti rogati nel mese di febbraio 1394 nella sala del camino nella fattoria monastica cittadina alla presenza dell’economo Donato da Padova e del fattore Antonio dal Bassanello[18]. Le dichiarazioni allora sottoscritte relativamente alle obbligazioni verso il monastero (sia in natura che pecuniarie) erano la conseguenza di un precedente accordo stipulato nel 1391 e perfezionato nel mese di novembre del 1392 dall’allora fattore Antonio del fu Checho spenditore, abitante nella contrada di Santa Giustina. Vi parteciparono Antonio del fu Zambonino da Legnaro dell’Abate; Giovanni detto Concon, Stefano suo fratello, figli del fu Matteo e il nipote Antonio del fu Biagio; Pietro del fu Ugolino Gobbo; Zanino del fu Clemente; Antonio detto Longo del fu Zenone che era debitore di dodici staia di frumento, dodici staia di spelta e due pollastri; Ordano Fabbro del fu Pietro; Enrico del fu Clemente Rigo; Manfredo del fu Alberto da Isola dell’Abbà; Rolandino del fu Secaldo; Antonio detto Spaventino del fu Mainerio; Giovanni Martino del fu Albrico; Stefano del fu Giovanni; Francesco del fu Vimano; Padovano del fu Francesco[19].

Questo gruppo di persone, quasi una piccola élite rurale ci permette di penetrare attraverso i documenti, in una società contadina molto vitale e intraprendente che talvolta disponeva dei beni del monastero a proprio piacimento, anche vendendoli senza nessun controllo dell’abbazia. Questo stato delle cose durò in sostanza fino agli anni Quaranta del Quattrocento, quando i cellerari presero l’iniziativa d’impedire il disfacimento della proprietà nei possedimenti situati a Legnaro, assumendone gradualmente la conduzione diretta. In effetti, più volte prima di allora si erano compiute cessioni di affitti e vendite di edifici rurali in assenza del consenso dei monaci. Il 16 luglio 1391 Antonio del fu Nascimbene, Nascimbene e Domenico cedettero ai fratelli Giovanni detto Cancono e Stefano del fu Marco i loro diritti su 38 campi arativi, piantati ad alberi e viti, situati a Legnaro dell’Abate nella contrada Brenta con casa e tezza in legname coperte di paglia[20]. Analoga operazione avvenne il 5 giugno 1393 tra Zanino del fu Clemente e Giovanni detto Massaro di Antonio Massaro, riguardo a un campo a Legnaro nella contrada “Cha dei campi”[21]. E ancora il 21 gennaio 1403 quando Battista del fu Albertino Massaro acquistò da Marco del fu Domenico Dal Cortivo e dai figli Benedetto e Domenico di Marco Dal Cortivo i diritti feudali di tre campi coltivati a viti e alberi situati nella contrada Villa[22].

Durante l’ultima guerra divampata tra i Carraresi e i Veneziani nel biennio 1404-1405[23], anche il territorio di Legnaro fu soggetto a saccheggi e distruzioni causati dal passaggio delle soldatesche: Marco Rolandino da Legnaro dell’Abate, di 72 anni, dimorante a Padova nella contrada di Sant’Antonio, testimoniando il 23 aprile 1466 in favore dei fratelli Bilioti nella causa contro il monastero, dichiarò che durante quei luttuosi eventi morirono molte persone, furono distrutte tutte le case («fuerunt destructa omnia edificia in dicta villa»), gli edifici rurali furono dati alle fiamme e le terre rimasero incolte («omnes curtivi fuerunt combusti et terre remanserunt vigre et inculte et male in ordine»)[24].

A Correzzola nel Cinquecento i monaci di Santa Giustina ricavavano dalle campagne grano, spelta, sorgo, vino, legname, legumi minuti (fagioli, fava), lino, e allevavano galline, capponi, oche, pollastri, maiali.

Nel Settecento i campi erano coltivati a frumento, frumentello, frumentone (mais), sorgo, miglio, legumi, vino, fieno legna, fascine, lino. Gli allevamenti degli animali fornivano polli, pollastri, capponi, galline, tacchini, anatre, oche, uovo, maiali, mucche e manzi.

Le valli di Correzzola fornivano una gran quantità di pesce che veniva inviato a Santa Giustina a Padova: ad esempio nel 1596 il “burchio di casa” trasportò «sfogi, guò, cape tonde, cape sante, ostrighe, rombi, grançeole, sievoli, pasare, calamari», una produzione che era in linea con l’alimentazione dei monaci in prevalenza non carnivora.[25]

Corte

3.3 – Il trasporto dei prodotti agricoli

Ciò che si produceva nei terreni posseduti dai monaci prioritariamente veniva destinata ai monasteri proprietari. Ma parti consistenti venivano fatte affluire ai mercati non solo di Piove, di Pontelongo e Bovolenta, ma anche di Padova, di Venezia e di Chioggia. E’ ovvio che una parte dei prodotti fosse destinata ai monasteri proprietari. Ad esempio nel 1182 Enrico Selvatico di Rosara affittuario di un appezzamento di terreno in parte coltivato a vigna, doveva consegnare ogni anno alla barca dell’abbazia di san Giorgio Maggiore un carro di fieno, trasportandolo a sue spese all’attracco del canale navigabile[26]. Costui rinunciò alla conduzione della vigna e del sedime in favore del figlio Martino il 23 aprile 1199[27].

Il monastero di S. Giustina godeva a Legnaro durante il governo dell’abate Olderico da Limena (1269-1289), di «un’ottantina di livellari (tra cui il cappellano) su un totale di 222 nuclei familiari, dai quali riscuoteva più di 783 lire (il valore di una sessantina di campi circa) e inoltre 42 capretti, 219 fra polli e galline, quattro colombi, un’oca»[28]. Le onoranze, consistenti in generi in natura, come pure i pagamenti in denaro degli affitti dovevano essere consegnate a Padova, nella fattoria del monastero, trasportandole su carri a proprie spese alla scadenza delle feste principali (Natale, Pasqua, S. Giustina, Tutti i Santi, carnevale)[29]. Tale prassi continuò a Legnaro fino a quando non fu innalzata nel XV secolo un’apposita corte, dove i conduttori e i livellari saldavano sul posto quanto dovevano al monastero.

Simili accordi di trasporto dei prodotti su barca o su carri fra monastero e conduttori erano naturalmente molto frequenti costituendo una prassi consolidata per quelle aree e non vale la pena dunque di insistere con ulteriori esemplificazioni.

 

Cosa rimane oggi del patrimonio storico dell’esperienza benedettina in Saccisica.

Ai nostri giorni nella Saccisica dell’esperienza benedettina rimangono, a mio parere, diverse e consistenti tracce, l’una di carattere documentario, una seconda di tipo spirituale e le le altre di ambito materiale. Il primo posto spetta alla memoria scritta contenuta negli archivi di provenienza monastica, tuttora ricchissimi e quasi integri, la maggior parte dei quali è conservata negli Archivi di Stato di Venezia, Padova, Modena, Milano e altrove, tra cui all’estero, così pure presso gli archivi ecclesiastici delle curie vescovili di Venezia, Padova Chioggia e nell’Archivio Segreto Vaticano (Fondo Veneto). Tutto questo prezioso materiale è di difficile accesso, per la difficoltà insita negli stessi documenti, scritti in latino con grafie non semplici da leggere che vanno dalla primitiva carolina all’umanistica passando per la gotica. Tuttavia gli studi fatti sui più antichi documenti e le numerose edizioni di fonti realizzate da benemeriti studiosi a cominciare dal Codice diplomatico del Gloria e continuare con il Codice diplomatico saccense del Pinton[30], fino alle recenti serie di Fonti per la storia di Venezia e di Fonti per la Terraferma Veneta, hanno contribuito a farci conoscere quanto la civiltà e l’eredità benedettina è penetrata in profondità nella popolazione.

La seconda traccia è quella di una sensibilità culturale e spirituale che non si trova in altre zone del territorio. I religiosi che hanno speso la loro vita in queste terre non si sono limitati a curare il solo al lavoro dei campi, o lo sfruttamento delle risorse naturali, ma hanno anche mirato a trasmettere un messaggio, quello cristiano, che parlava e parla di amore del prossimo, di fraterno aiuto, di sussidiarietà e di condivisione delle risorse naturali. In queste zone, per quanto conosco, non c’è mai stata una sollevazione violenta contro i monaci a differenza di quanto nel Ciquecento è avvenuto nel Mantovano nei riguardi dei religiosi dell’abbazia di San Benedetto di Polirone[31], ciò significa che i cellerari e i commessi nel condividere le fatiche e i dolori giornalieri dei contadini hanno anche assunto nei loro riguardi un atteggiamento di benevolenza, di sano paternalismo sgorgante dalla stessa Regola benedettina, e nel contempo si sono premurati di elevarli spiritualmente, non per nulla per due secoli le parrocchie ebbero come pastori d’anime gli stessi membri della comunità monastica cittadina.

Una terza traccia, assai visibile, lasciata dai monaci nel territorio della Saccisica è quella della bonifica. La fitta rete di canali creati e scavati, i consistenti argini innalzati e la loro conformazione testimoniano quanto lavoro è stato profuso nel corso di più secoli per rendere fertili le terre del territorio. E’ il frutto di un effettivo impegno delle comunità benedettine di Padova e Venezia, nonché di abati, priori, cellerari, monaci, commessi e lavoratori dipendenti dai monasteri, in una con i membri dei consorzi di bonifica. Nel Consiglio dei Consorzi di bonifica l’abate di Santa Giustina partecipava come membro di diritto, in quanto il suo monastero era l’ente che maggiormente sosteneva gli oneri finanziari a causa dell’entità delle sue possessioni e dell’estensione del territorio di sua competenza. Tuttavia erano i suoi monaci coloro che sul campo operavano nel dirigere le operazioni di scavo, di riparazione delle rotte dei fiumi e di regolamentazione del flusso dei corsi d’acqua (Gorzone, Bacchiglione, Paltana, Barbegara, Rebosola, Malipiera, condotto Michieli)[32]. Canali di bonifica e irrigui ancora in esercizio in esercizio e per lo più  tutt’ora dotati di taluni ponti costruiti, o fatti costruire, dagli stessi monaci.

Anche la toponomastica concorre a ricordare la millenaria presenza benedettina; Brenta dell’Abbà, Isola dell’Abbà, Legnaro dell’Abate non si spiegherebbero se non ci si rifacesse a quanto l’abate di Santa Giustina e i suoi monaci hanno realizzato in quei territori. Così le origini del villaggio di Frapiero e della località Sista, nonché dei due canali Sista non si spiegherebbero se non ci si rifacesse nel primo caso all’oscura, ma preziosa, opera di fra Pietro Preto da Cornedo Vicentino[33] che nella gastaldia di Cona padovana svolse il suo quotidiano servizio in qualità di commesso del monastero dal 1752 al 1793, mentre il toponimo Sista rinvia all’attività profusa nel Cinquecento dal cellerario don Sisto da Padova per bonificare il territorio e preservarlo dalle ricorrenti alluvioni[34], benché quel territorio situato nel dogado ai confini con la gastaldia di Civè in pieno Cinquecento sia stato confiscato dalla Serenissima ai monaci in seguite alla famose liti fiscali.

Un ulteriore traccia della civiltà monastica nella Saccisica è rappresentata dagli edifici innalzati dal XV al XVIII secolo. Le vecchie chiese parrocchiali e le antiche fattorie, che in buona parte conservano sulle facciate gli stemmi in pietra dell’abbazia di Santa Giustina, o le date di costruzione incise su pietra, se curate dagli attuali possessori, ci permettono di scoprire come valenti proti o architetti ingaggiati nelle grandi costruzioni cittadine di Padova o di Venezia, sono stati coinvolti dai benedettini nella realizzazione delle dimore rurali e nelle corti dominicali[35]. Ad esempio i monaci di Santa Giustina nel contratto di collaborazione con Andrea Moroni (1532) per la costruzione della grande basilica abbaziale padovana introdussero tra le clausule anche quella di rendersi disponibile a prestare la sua qualificata opera nell’adattamento e nell’edificazione delle chiese e delle fattorie sparse nel territorio[36].

Infine è da ricordare che l’imponente abbazia e la grandiosa Basilica rinascimentale di Santa Giustina, come pure i grandiosi e armoniosi cenobi veneziani di San Giorgio Maggiore e San Nicolò del Lido non avrebbero potuto essere realizzati se i monaci non avessero proficuamente investito il di più dei loro redditi nell’abbellire le loro dimore considerate a pieno titolo come casa di Dio, di quel Dio che essi avevano scelto come loro re e salvatore entrando in monastero, alla cui sequela si erano posti seguendo il modello di tanti altri confratelli sparsi nel mondo che hanno lasciato in eredità alla civiltà europea imponenti composizioni teologiche, storiche e letterarie che hanno profondamente inciso nella cultura del loro tempo, concorrendo così a rendere più vivibili, belle e graziose le dimore di Dio e degli uomini nelle città e nelle campagne con i loro caratteristici monumenti d’arte[37].

[1] CDP, I, p. LXXIII.

[2] CDP, II, ni 249-250 p. 196-197.

[3] CDP, I, n° 17 p. 33-34

[4] CDP, I, n° 20 p. 36-37.

[5] CDP, II, ni 245-246 p. 196.

[6] CDP, II, n° 249 p. 193-195

[7] CDP, II, n° 919 p. 162.

[8] Rippe, Padoue et son contado, p. 423.

[9] CDP, II, ni 978- 979 p. 195-197.

[10] S. Giorgio, III, n° 127 p. 279-281; sulla coltivazione della vite nel Padovano con esempi della Saccisica si veda: Rippe, Padoue et son contado, p. 553-569.

[11] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 193v.

[12] CDP, I, p. LXXIII ; Rippe, Padoue et son contado, p. 572.

[13] S. Giorgio, III, n° 457 p. 235-237; n° 459 p. 239.

[14] S. Giorgio, ed. III, n° 583-584 p. 402-411; per la produzione del lino si veda anche: Rippe, Padoue et son contado, p. 569-574.

[15] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 193r.

[16] Bortolami, Arzergrande e Vallonga, p. 57.

[17] S. Giorgio, III, n° 573 p. 390.

[18] ASP, S. Giustina, 98, P. I, f. 3r-10v.

[19] ASP, S. Giustina, 98, P. I, f. 3r-10r.

[20] ASP, S. Giustina, 140, f. 5r-8r.

[21] ASP, S. Giustina, 140, f. 9r-11r.

[22] ASP, S. Giustina, 140, f. 13r-15v.

[23] A. Simioni, Storia di Padova dalle origini alla fine del secolo XVIII, Padova 1968, p. 561-568.

[24] ASP, S. Giustina, 98, f. 323v.

[25] La corte benedettina di Correzzola, p. 80 sch. 56.

[26] S. Giorgio, III, n° 424 p. 198-200.

[27] S. Giorgio, III, n° 612 p. 450-451.

[28] S. Bortolami, L’età dell’espansione (sec. XI-XIII) e la “crisi” del Trecento, in I benedettini a Padova e nel territorio padovano attraverso i secoli. Saggi storici sul movimento benedettino a Padova. Catalogo della mostra storico-artistica nel XV centenario della nascita di san Benedetto, a cura di A. De Nicolò Salmazo- F. G. B. Trolese, Treviso 1980, p. 29.

[29] Si tenga presente che la documentazione attualmente esistente riguarda solo piccoli appezzamenti di terreno, mentre per i poderi maggiormente estesi, della misura di un manso, cioè da 20 a 30 campi, non è rimasta documentazione archivistica.

[30] P. Pinton, Codice diplomatico saccense. Raccolta di statuti, diplomi ed altri documenti e regesti di Piove di Sacco, con prefazione, introduzione, registro, fonti, note, carte ecc., Roma 1892 – 1894 (riprod. in anastatica a cura del Centro di documentazione per la storia e la cultura dellaa Saccisica con introduzioni e indici di D. Gallo, C. Grandis, G. Meneghel, Este 1990).

[31] R. Signorini, Del “martire” fra Bonaventura, in I secoli di Polirone. Committenza e produzione artistica di un monastero benedettino.  San Benedetto Po (Mantova, Museo civico polironiano 12 aprile – 30 giugno 1981, catalogo della mostra a cura di P. Piva, II, Quistello (Mantova) 1981, p. 510-526.

[32] Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p. 199-202.

[33] Cfr. Le fonti della nostra storia: le origini, in Frapiero. Origini, storia, tradizioni di un paese e della sua gente, p. 11-15.

[34] La fine della sua militanza nell’ordine di san Benedetto è stata edificante: G. da Potenza, Cronica giustiniana, f. 113r.

[35] Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p. 68-128.

[36] Maschietto, «Ut grex dominicus salubriter regatur», p. 72 nota 123, 199, 200.

[37] G. Spinelli, La Congregazione benedettina cassinese e l’arte italiana (secoli XV-XVIII), in Benedeto. L’eredità artistica, a cura di R. Cassanelli e E. López-Tello García, Milano 2007, p. 311-326.