La tipicità dei prodotti tra memoria e riscoperta

di Raffaele Girotto, Chef “Vecia Brenta”, Mira-Venezia

Raffaele Girotto

La giornata era uggiosa ed avevamo in bocca un buon sapore di caffè indiano.
Le informazioni, gli aneddoti, le scoperte scorrevano veloci, mentre visionavo le foto del libro della BCC: Natura e Ambiente, in Saccisica e dintorni  (2005) da poco ricevuto in regalo.
Colpito dalla suggestione delle immagini e dei colori, fui trasportato nelle ”sensazioni della Terra Saccensis.

…vicino al greto dei fiumi, con in bocca il gambo acidulo di una gramegna, ascoltavo il lento fruscio dell’acqua sulle “canevère”, …seduto all’ombra di un selgaro nel Bosco di via Breo seguivo, sul terreno umido, un lento procedere di formiche.
Lungo na caresada, a Candiana percepivo nell’aria un leggero profumo di “piopparoi” e osservavo il volo di un fagiano che entrava nel granturco. Mi sono trovato improvvisamente immerso in un torpore di ricordi e sensazioni già vissute. Mi sono chiesto quali fossero tali sensazioni.

La gioia condivisa con Paolo1, ci ha portato al dunque, e ci siamo scambiati alcune informazioni “sul linguaggio del cibo”. Ecco allora spuntare le fotocopie di una ricerca gastronomica del 1976 (Bandelloni, 1976) e una linea progettuale da seguire: capire come sia cambiata la memoria della tradizione alimentare e verificare come sia cambiato il “saper fare in cucina nel territorio della Saccisica”, come in altri.

Abbiamo discusso quanto citato da Massimo Montanari mangiare non è solo un atto materiale: dietro al consumo di un alimento c’è una  storia infinita di lavoro, di conoscenze, di scelte. C’è tutta la cultura che le società umane hanno saputo esprimere”; ossia, masticando ed inghiottendo cibo non si digeriscono soltanto cellule animali e vegetali dalle quali si ricava un apporto energetico in carboidrati, proteine, lipidi, sali minerali e vitamine, ma nel contempo si elaborano idee, immagini e suoni. In altre parole, si stimola la memoria e ci si relaziona con “l’intuizione del Gusto”2. Pertanto, adempiendo alla necessità del nutrimento, si filtra attraverso caratteristiche personali, psicologiche, singole o di gruppo, e si assimila non solo la cultura gastronomica e/o alimentare, ma anche la cultura di un tempo “definito” e di un luogo “specifico”.

Il mio incontro con Paolo si è concluso con dei quesiti:

  1. come sta cambiando la “linfa” che alimentava il modello di economia  basata sull’autoconsumo, della società tradizionale contadina della gronda Lagunare Veneta di cui anche la Saccisica fa parte?
  2. come si esprime oggi, la propensione degli uomini (un tempo cacciatori/raccoglitori, pescatori/contadini) a cercare, inseguire, raccogliere e coltivare quelle specie animali e vegetali che ottimizzino il ricavato calorico in rapporto con il vivere quotidiano?

La gente della città e la gente di campagna, fra popolo, borghesia, e nobiltà.

Storicamente, qualora si volesse ravvisare il riprodursi nel corso della storia di un modello di cucina, occorrerebbe aderire al principio che la sua esistenza e la sua circolazione possono essere percepite solo facendo riferimento a quel che accadde nei circoli aristocratici e nelle èlite cittadine.
Sappiamo cioè che usi e costumi alimentari non furono diffusi omogeneamente tra le grandi masse di popolazione , costrette  invece a regimi poveri, monotoni ed immutabili. Gli strati  poveri e la maggioranza della popolazione per secoli ignorarono praticamente tutto delle “specialità” che hanno reso la mia città… (Bezzola, 1991).

Esiste una bibliografia ampia, di autori importanti che già risponde alle domande che si siamo posti noi. Ritengo però che le accelerazioni degli ultimi cinquant’anni abbiano cambiato radicalmente le cose e per questi territori esista il rischio reale di perdere una parte dell’ identità culturale.

Per essere utile al progetto per un recupero gastronomico in Saccisica, ho pensato di frequentare le persone e i luoghi, visitando di notte e di giorno la Saccisica, utilizzando di volta in volta la scusa di un caffè bevuto in un bar, la macchina, la bicicletta, i piedi, quel che resta della vaca mora (littorina) per scrutare la campagna o un “barchin” per solcare i segreti dei ghebi in valle Millecampi.

Ecco le sensazioni che ho avuto:

In campagna

Nessuno rimpiange il profondo disagio economico e sociale di chi viveva la campagna negli anni o nei secoli scorsi. Ma il paesaggio campestre, dipinto dal lavoro secolare dell’uomo, oggi non c’è più: è frammentato, disgregato, lo devi cercare.
Personalmente amo perdermi in questi “francobolli” di campagna nelle grigie nebbie invernali, quando la foschia si fa più fitta e densa, e tutto tace.
Quando la stanchezza del cucinare me lo consente, nel silenzio della notte estiva, lasciata la macchina sui sassi, ai bordi delle strade, mi fermo a cercare.
Seguo un viottolo lungo una siepe e raggiungo una sponda protetto dal silenzio E nel buio, chiudo gli occhi e la presenza della “Grande Madre”, simbolo della Terra, si fa ancora portatrice di vita (Villar, 1997).

A poco a poco, col trascorrere delle ore, l’alba dirada il buio, la luce trasforma il colore, e le cose riacquistano vita. Lo sguardo è appagato di fronte alla materna pianura che accoglie generosa il nuovo ed il vecchio di piccole e grandi comunità.
Tutto si anima ed accelera rendendo informale lo spazio degli animali e degli uomini.
E’ ormai lontano il tempo in cui si “seguiva” nell’aria la fragranza del pane appena sfornato; è oramai in buona parte perduta la memoria dell’aria calda delle stalle, i muggiti, il latte appena munto e il profumo del fieno.
Alla sera ci si ritira in casa, carichi di un’altra fatica, non per ricamare o per sentir nel filò raccontare storie di paura, ma per “connettersi” con una televisione molto spesso vacua. Cala un sipario morbido che vela e addormenta ogni cosa, voci, immagini, suoni …memorie.

 Fossi, siepi, canali

Camminando fra il passo della Fogolana e il nodo idraulico di Conche, un giorno d’agosto 2007.
In una pianura definita a steppa (Reggiani, 2005) e a cerali spontanei, ma spesso disegnati in maniera simmetrica nei campi, i fossi, le siepi, gli scoli, i canali sono in estate ancora oggi luogo di giochi e di avventura per i ragazzi che si trovano a contatto con rane, anguille, piccoli pesci. Svelano piccole oasi di quiete ove godersi delle pause, al fresco di saliceti, olmi o gelsi e dove immergere d’estate i piedi o il fiasco di un buon vino.
Si è avvolti da suoni e odori dai timbri precisi, ma tutti da scoprire e preservare.
Il crepitio dell’erba secca sotto i piedi, il suo sapore forte e cotto dal sole si mescola a volte all’odore dell’acqua guasta o delle erbe in fermentazione.
Luogo di inediti incontri sono sempre stati un sito eletto per i raccoglitori di erbe spontanee e funghi il Passo della Fogolana e il nodo idraulico di Conche.
Un giorno d’ agosto dello scorso anno, ore 7:30, seduto nella “Littorina” nel tragitto Mira Porte-Adria, ottobre 2007. Con una Bibbia in mano guardando attraverso il finestrino …grigia foschia che aleggia mite e leggera sulla fredda terra, luce del mattino tinta da un sole nascente con un pallido rosa. Più tardi, sospesa sull’acqua dei canali e dei fossi si tinge di viola. “E la luce fu”( Genesi I, 3).

La corte

In bicicletta, giugno 2007.
Pellegrino Artusi nel suo famoso libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”(1891), cita il “cappone in vescica” che altro non è che il nostro “cappone in canevera”.
Allora mi sono detto: voglio vedere i luoghi della famosa Gallina di Polverara.
Ho lasciato alle spalle Piove di Sacco e sto correndo in bici un lungo rettilineo. Vado a ovest, verso Padova e cerco l’incrocio che porta a Volparo e a Polverara.

In lontananza, un bambino cammina fra il bordo della strada e lo scolo d’acqua che la costeggia. Sono assetato e smanioso di lasciare presto questo anonimo tratto di percorso; sento… dai Samuel va zugare in corte, la nonna che da una casa vicina indica al nipote, quello che in quel momento affiancavo: un pezzo del giardino. Poco più avanti, mi fermo perché bloccato del nauseabondo odore di catrame che originava dell’asfaltatura dei buchi della strada. Piede a terra, mi sono girato verso quel bambino che entrava in una casa degli anni ’50; intonaco grigio maculato, mai dipinto: un contenitore calato nella campagna come una comoda scatola associata ai sistemi di comunicazione e mi sono chiesto, ma dov’é la corte?

Quella che in altre parti dell’Italia è chiamata Aia da noi diventa Corte.

Anche per questa anziana donna lo spazio scoperto, entro la proprietà privata del fabbricato di famiglia, è una corte. Passi per i nomi delle persone che cambiano: basta Nane e Toni, ma non parliamo più nemmeno lo stesso dialetto.

La corte, spazio attivo per eccellenza, luogo luminoso e significativo, è l’antica curtis  che recinta l’orto, sede dove si coltiva il rapporto dell’uomo con i ritmi della natura: un simbolo.
In Saccisica grazie ai Benedettini, questo “spazio scoperto” si definiva nel linguaggio dell’economia dei fondi agrari.

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Il linguaggio, allora, era lo stesso nelle macro aree ed anche in quel piccolo spazio di terreno che dava luce e aria agli ambienti sul quale si affacciavano. Poco più avanti, un capannone agricolo pieno di grosse macchine con a fianco ancora un’altra “scatola” grigia.

Quando mi sono rimesso a correre in bici il paesaggio mi sfuggiva ai lati, e l’occhio stava sempre più attento a ciò che accade sul nastro di asfalto: segnali, macchine, rumori…
Anche in bicicletta è difficile vedere, difficile riconoscere: occorre sempre andare a piedi per entrare in contatto con la natura.
Bisogna lasciare il ritmo e le ansie delle abitudine quotidiane per ritrovare la campagna!

Dopo aver passato Polverara, Brugine e Pontelongo, sono sceso a Correzzola. Varcato con rispetto il cancello della Corte Benedettina, sono stato accolto da dei bambini che giocavano in uno spazio oggi non certo definibile a prima vista “Benedettino”. Quel che resta dell’antica corte è smembrato in tante proprietà ed è difficile riconoscere la disciplina della “Regola” se non nei segni notarili delle pietre o dei mattoni. Mi sono allora diretto verso la chiesetta posta ai margini del Bacchiglione e salito sull’argine ho cercato quelle “esistenze” dove la Corte si prestava alla mietitura, alla fienagione e agli eventi del raccolto del mais e del grano. La Corte, ove su appositi graticci si stendevano al sole per l’essiccazione i legumi, i pomodori e altre cose ancora, o angoli in penombra riservati per le erbe aromatiche.

Nel giorno del bucato, il rumore della catena sulla carrucola conduceva al famigliare odore del sapone, mentre mani esperte usavano la sponga so la tola, e per la lavatura dei piatti si sciacquavano le stoviglie vicino alla scafa.
Circondata da un porticato, la corte  riuniva uomini, donne e bambini per la cena serale d’estate e nel centro razzolavano oche, galline, e faraone, le anatre passavano veloci preferendo i vicini fossi.
Era luogo di transito per mucche, cavalli, vitelli e maiali condotti per la pesatura, per il lavoro o per la macellazione. Centro di scontri e rumori destinava ai lati spazi precisi, destinati a costruzioni fatiscenti per conigli racchiusi in gabbie oscure o al più organizzato porcile dove le donne si affaccendavano.
I colori e gli odori penetranti della corte si addormentano in inverno, quando la nebbia o la neve tutto copre e tutto cela.

Il maiale

E’ la festa per eccellenza in campagna quando si ammazza il maiale. L’autunno avanzato conduce le sue urla strazianti assieme a una forte eccitazione che tutto pervade; i rituali sono rispettati, i sacrifici di tanti mesi vengono ora ricompensati, la preparazione del luogo, degli strumenti, del vasellame di raccolta avviene tra uomini esperti in un’atmosfera che ha del sommesso e del drammatico che solo più tardi si scioglierà in allegria.
I bambini dimenticano subito il broncio per essere stati allontanati perché oggi si mangia bene, si mangia diverso, pasta di salame, fegato, torta di sangue, ossi da succhiare e braciole succulente ai ferri da rallegrare il corpo e l’anima.

Si dividono le parti dell’animale di cui nulla andrà perduto: la pelle, il grasso, le carni, il cuore, il sangue e le interiora. Tutti doni che rallegrano l’intera famiglia per la lunga stagione invernale. Qualcuno ha detto, ed è una “verità sacrosanta”, che l’Europa del passato è stata salvata dal maiale!

 

In conclusione, come sottolinea Tirelli (2006) Per pensare un cibo non serve una specifica preparazione. Potrebbe anche servire e forse sarebbe anche utile. Ma non è tassativo come in astronomia. Basta annusare, masticare e deglutire e il pensiero nasce da solo senza che alcuno possa porlo in discussione.
A mio avviso, tuttavia, il cibo, per essere pensato, bisogna prima conoscerlo!

NOTE

1Paolo Zatta

2n.d.a. Raffaele Girotto, curatore dell’evento gastronomico “Il cioccolato, un mondo da scoprire e salvare”, Parma Circolo di Lettura, 1999.

BIBLIOGRAFIA

Artusi P. (1891)  La scienza in cucina e l’arte del mangiar bene; (1999) Newton & Compton, Roma.
AA.VV. (2005) Ambiente e natura in Saccisica e dintorni, (a cura di P.Zatta) Banca di Credito Cooperativo di Piove di Sacco.
Bandelloni E. (1976) La cuncina in Sacisca.
Bezzola G. (1991) la via quotidiana a Milano ai tempi di Stendhal, Milano, BUR.
Reggiani P. (1995) Aree Umide, In  ”Ambiente in Saccisica e dintorni”, ArtMedia, Edizione Banca Credito Cooperativo di Piove di Sacco.
Tirelli D. (2006) Pensato e mangiato, Agra editrice, Roma.
Villar F. (1997) Gli indoeuropei e l’Europa, Bologna, Il Mulino.