Quando la fame aguzza l’ingegno

di Antonio Todaro

Ogni mensa abbia i suoi doni
A. Manzoni, Inni sacri, La Risurrezione

Sulla soglia

La Saccisica di Piove di Sacco, delle decine di paesi, delle centinaia di luoghi appartati, è anche la Saccisica delle molteplici dimore, degli innumerevoli camini, dell’incolmabile varietà di cibi, talora radicati nella seconda metà dell’Ottocento e, con ogni probabilità, anche in anni precedenti. Ora sono stati in gran parte avvolti dall’oblio anche per una certa invadenza della retorica del bel tempo passato che ha finito per inventare tradizioni e immaginare realtà, che non sono mai esistite e identità relegate sul piano dell’aneddotica, della curiosità e di un improbabile privato. La cucina della Saccisica invece ha una sua peculiare identità culturale e ogni cibo finisce per testimoniare, a suo modo, il tempo, il clima e un sapere alimentare che continua a suggerire le più svariate forme del gusto, dei profumi, dei sapori e anche dei riti e delle contaminazioni sottese alle pratiche di cucina e condizionate dal mutare dei rapporti sociali, dalle sempre più frequenti relazioni tra campagna e città, dagli assidui processi di circolazione e appropriazione delle idee. Tutte inducono verso una gastronomia tesa alla ricerca dei suoi ingredienti nei prodotti dell’orto, dei campi, dei prati, dei boschi, delle stalle e dei cortili. E’ un mondo difficile da immaginare (anche se era fino a ieri), ma che si può intuire se lo si cerca nello specchio di una microstoria locale spesso fatta sottovoce, intessendo un ordito denso di silenzi, di sguardi, di piccoli segreti immersi in una atmosfera che era un miscuglio di tanti sentimenti. Ognuno sta nell’abbraccio delle mura domestiche, unito a un paesaggio, a una data, a un ricordo, a una stagione che torna sempre a rimarginare le ferite della vita. Nel tempo, molte di queste consuetudini si sono stese in tante direzioni finendo per dare vita a una cultura gastronomica delle classi subalterne, riconducibile ad una composita identità locale.

E’ un’identità che si è andata formando in un determinato contesto storico e all’interno delle cucine, spesso alla presenza di un’anziana madre, nume tutelare che da quelle mura un giorno se n’è andata, dopo esserne stata per lunghi anni l’anima. Dietro quelle consuetudini ora stanno i ricordi che rimangono come i sentimenti e risuonano di una quotidianità che attrae e che respinge. Così è rimasto il ricordo del sale e di quelle sgradevoli pastiglie di chinino distribuite gratuitamente dallo Stato Italiano ai poveri iscritti nei tristi elenchi dei Comuni, per debellare la pellagra, la malaria e altre malattie infettive diffuse a causa di quelle acque stagnanti ampiamente diffuse in una terra avara. La storia di quelle e di tante altre cucine è un interminabile libro aperto, scritto da molte mani, con alcune pagine annotate, molte altre in bianco, in attesa di essere riempite. Le prime raccontano una gastronomia strettamente unita ad una sapienza legata al territorio, alle sue risorse e a una precisa storia locale. Erano momenti in cui le donne contadine a trent’anni, stremate dalle Acquafatiche, ne dimostravano cinquanta; attingevano l’acqua dal pozzo; lavavano i panni al fiume; indossavano vestiti lisi e calzini rammendati. Le più fortunate, con il cuore gonfio di malinconia, erano mandate a servizio come domestiche nelle case dei signori e così potevano mangiare tre volte al giorno, mandare a casa qualcosa. Vi erano i ladri di polli. Per tutti vi erano i geloni d’inverno che si annunciavano con un lieve prurito cui seguiva un doloroso gonfiore che finiva per spaccare le nocche delle dita e l’orlo superiore delle orecchie; le sgalmare, gli zoccoli costruiti con le tomaie delle vecchie scarpe e il fondo di legno talvolta rinforzato da pezzi di latta o di zinco inchiodati di sotto; lo scaldino per sgelare le lenzuola; il libretto delle Massime eterne sul comodino e il vaso da notte dentro. Per le donne, le calze con la riga, le scarpe ortopediche con la suola di sughero, la sottoveste, il busto, l’uovo di legno infilato nella calza da rammendare e su cui batteva con il ditale per appianare il rattoppo. Per gli uomini il tabarro, il portafoglio a fisarmonica, i pantaloni alla zuava, la giacca con la martingala, la camicia che al posto del colletto aveva un girocollo da allacciare con un bottone di ferro, la camicia da notte anche per loro. Per i neonati le fasce avvolte strette, strette a spirale; per chi poteva studiare vi erano le matite copiative, il calamaio, le manopole, una specie di guanti di lana con i diti a metà per poter impugnare la penna con il pennino che spesso finiva per incrociare le punte e per spruzzare d’inchiostro le pagine del quaderno; il salvadanaio in cui introdurre le monetine del risparmio; i rocchetti di legno usati, trasformati in giocattoli; i cucirini più piccoli e con l’anima di cartone, diventavano invece dei fischietti: bastava tapparne un’estremità con il pollice e soffiarci dentro. La scuola per tutti gli altri bambini, soggetti al controllo del padrone, non esisteva.

Tutto ora appartiene ai reperti archeologici di una memoria in cui spesso l’arte della cucina e il sapere medico procedevano di pari passo perché parlavano il medesimo linguaggio.

E ora tutto è lì sulla soglia e attende di iniziare un lungo dialogo tra il nostro piccolo presente e un passato sconfinato, sommesso, inafferrabile su cui si era andato lentamente infiltrando un insieme di sollecitazioni gastronomiche che hanno finito per allargare la trama fino a creare una storia dell’alimentazione famigliare, tutta particolare. E’ una storia che ha segnato chi viveva in quella casa, che è rimasta nella memoria e che soprattutto ora sollecita il bisogno di ripercorrerla per ritrovare consuetudini, rituali domestici dentro un paesaggio e in un rapporto di precaria, fiduciosa attesa. Quanto al tempo, queste abitudini sono diventate il luogo del dialogo tra il nostro “piccolo presente” e uno “sconfinato” passato”, cronologicamente scandito dalle prime scoperte dell’infanzia, avvenute entro le pareti di casa, fino alla crescita umana e sentimentale di chi ha impresso sulla pagina di un anonimo ricettario un racconto che ora può venire filtrato attraverso una pluralità di punti di vista in grado di andare oltre la dimensione narrativa. Costringerlo solo in quella dimensione sarebbe come snaturarlo e impoverirlo di ciò che maggiormente cela e cioè l’umanità, l’affettività, la malinconia e l’anima del suo mondo, in cui parlano anche i silenzi, e che è ciò che emerge da quelle frasi vergate con mano a volte incerta e maldestra.

Ogni ricetta porta con sé una consuetudine, un volto, un mondo perduto: la famiglia, il cibo, la preghiera, l’amicizia, l’amore, il lavoro, l’odore dei campi arsi dal sole o imbevuti di acqua stagnante, il boccone di pane assaporato lentamente. E ancora racchiude in sé la testimonianza di un passato in bilico anche tra il ricordo personale e il documento: un racconto ricco non solo di memoria, ma sulla memoria stessa, sulla forza e sull’identità di chi l’ ha scritta, sulla capacità di attendere per farsi ritrovare e far rivivere un mondo smarrito, immerso nell’incertezza di un futuro ma sempre con il coraggio di riprendere, a volte con mesta malinconia, a volte con fiduciosa disponibilità, a volte con ironica bonarietà.

Polenta, sempre polenta!

Nelle famiglie abbienti c’era la cucina economica che contemporaneamente cucinava i cibi, riscaldava la stanza, conservava l’acqua sempre calda in una caldaia rettangolare in parte immersa fra le brace e il piano di cottura, una lastra continua in cui vi era una serie di anelli concentrici di misura degradante. Si potevano sollevare usando un bastone di ferro con un uncino posto ad una estremità in modo da adattarsi all’ampiezza della base dei recipienti da scaldare con le sottostanti fiamme. In posizione defilata vi era un tubo e ad un certa altezza un anello con una serie di stecche che assumevano la forma di un ombrello: servivano per asciugare qualche panno umido.
In quella stanza alla domenica vi era:

” …l’odore del brodo che gassava tutta la cucina,…la pignatta bollente con un quarto di gallina, un sedano e una carota che andavano su e giù… Il pane sulla tovaglia non doveva avere la pancia all’aria, la saliera era contenuta in una scodella di terracotta, perché neanche un granello di sale doveva essere rovesciato. Le posate erano accanto ai piatti, ben distanziate tra loro e non dovevano sovrapporsi perché poteva portare male…Sul fuoco si gettavano le briciole del pane rimasto sulla tavola o cadute sul pavimento… e il sale caduto in terra e non utilizzato… le bucce delle mele di San Biagio, …i gusci delle uova pasquali,…i vecchi sant’Antoni di carta, conservati nelle stalle e che erano soggetti ogni anno al cambio…si ringraziava Dio prima e dopo aver pranzato”
(Arzerello, giugno 1959, Elena, anni 67, domestica)

Nei giorni di astinenza e di digiuno…

…”si cucinava il baccalà. Prima di tutto il baccalà andava battuto con forza. Il mio povero marito diceva che era come una donna che più la si batte e più diventa buona. Dopo averlo battuto, lo mettevio a bagno per due giorni e due notti. Poi lo sgocciolavo, toglievo le spine, ma non la pelle, perché lei dà al sugo un bel vedere come di velluto. Lo soffriggevo nel tegame con olio e burro, un cipolla tagliata fine, aglio e prezzemolo. Qualche volta ci mettevo anche alloro. Quando la cipolla era soffritta e di colore come l’oro ci immergevo i pezzi di baccalà, infarinati con farina e con formaggio di quello da grattare. Poi coprivo tutto con la latte tiepida e con olio di oliva, fino all’orlo del tegame e lasciavo cuocere piano piano con una fiamma più piccola che potevo. Ogni tanto aprivo e mescolavo perché altrimenti si sarebbe attaccato al fondo. Quando veniva mia suocera ci aggiungeva anche un’acciuga. Veniva bene. Mio marito finiva sempre con dire: Per fortuna che è giorno di penitenza!”
(Arzercavalli, marzo 1961, Gilda, anni 73, casalinga)

Nel punto più buio e più lontano dalla luce, appesa al muro vi era la moschiera: un piccolo, rozzo mobiletto con i lati e le porte formate da una finissima e sottile rete metallica. Respingeva gli assalti dei topi, che scorazzavano con gli occhi lucidi, e delle immancabili mosche la cui fine era quella di posarsi sulle strisce di carta spalmate di colla che pendevano dalle travi. La moschiera serviva per conservare il burro, il lardo e i cibi che più facilmente si sarebbero potuto avariare. Nel tempo, anche da queste parti, arrivò la “machineta del flit“, una sorta di cilindro munito di stantuffo che serviva per nebulizzare un liquido tossico, efficace come insetticida contro le mosche e pericoloso per la salute di tutti.

Nelle famiglie più povere il cibo quotidiano era la polenta.Polenta

“Io preparavo la polenta ogni giorno. La cucinavo anche tre volte in un giorno. La cucinavo in un paiolo di rame oppure in una pentola più grande (la stagnà), e la mettevo nel camino a fuoco allegro. Il paiolo era appeso ad una catena che pendeva dal camino ed era nera come la cappa del camino. La tenevo ferma con uno sgabello triangolare. Quando l’acqua bolliva, lasciavo cadere dalla mano sinistra, la farina molto lentamente sulla superficie dell’acqua mentre con la destra giravo il mestolo di legno in fretta e nel senso delle lancette dell’orologio, per impedire la formazione dei grumi (i munàri). L’importante era lasciar cadere la farina dalla mano sinistra, nell’acqua bollente, adagio adagio, come una pioggia sottile, mentre la destra girava la stecca con un moto uniforme, nel senso delle lancette dell’orologio. Durante la cottura capitava che qualche briciola di caligine cadesse dalla cappa del camino sull’impasto. Allora provavo a toglierla con la stecca o con un cucchiaio di legno; se non ci riuscivo l’impasto assumeva un colore marroncino. Se il pezzo di caligine era più grande e non riuscivo a recuperarlo, la polenta diventava marrone scuro e man mano che si raffreddava si formavano delle venature di color rosso, che sembravano sangue. Allora erano guai! Perché si riteneva che fosse la causa di un sortilegio realizzato da qualche strega che voleva male alla famiglia. Allora non si poteva mangiarla. Se ne portava un po’ dal sacerdote che con stola e acqua santa riusciva sempre a togliere la fattura malefica.
Per essere cotta bene la polenta doveva restare almeno quaranta minuti sul fuoco. Io qualche volta verso la fine ci aggiungevo anche una salsiccia, in modo da condirla bene. Poi la versavo su un taliere. Mia suocera mi aveva insegnato che la polenta era pronta quando l’impasto era così compatto da sostenere la stecca piantata in mezzo. Poi mi aveva insegnato un indovinello:” quando la taca si, l’è pronta no. Quando la taca no, l’è pronta si….Quando le condizioni lo consentivano, la si mangiava con il tocio, con lo spezzatino misto o il pollo in umido e anche con la renga, l’aringa, il sogno di tante tavole povere.”

(Santa Margherita, settembre 1959, Adele, anni 64, contadina casalinga).

 “Mia mamma cucinava almeno cinque-sei chili di farina, la faceva alla mattina perché così bastava anche alla sera e magari anche per il giorno dopo, perché così era già pronta. Ricordo che sudava tanto, e che quando metteva la farina nell’acqua bollente si formavano degli spruzzi che qualche volta la colpivano sul viso o sulle braccia e dei grumi (i munàri) che quando mio papà li trovava le diceva “A te si bona a fare solo la polenta coi munari” e lei talvolta gli rispondeva: “Xe manco fadiga fare un toso che fare na polenta!”

Una volta versata sul tagliere, veniva tagliata a fette con il filo arrotolato sul manico. Le fette erano compatte, tanto che in certi luoghi si ricorda ancora che quando la polenta veniva versata sul tagliere doveva quasi rimbalzare. Erano le fette che tanti poveri contadini si portavano in tasca come pranzo. Ora invece i ristoratori la servono tenera.

E tante volte i piccoli di casa finivano immancabilmente per impadronirsi del paiolo fumante per ripulirlo delle croste che si erano depositate sul fondo, anche se la mamma bloccava ogni velleità: “Fermi tuti! prima bisogna ch’el fumo el toca i travi!” La si mangiava nel latte, con il formaggio, con i fichi secchi, con le sardine salate, con le uova sode, con le frittate, con il pesce e con altri umili cibi. Un modo di desinare in cui la polenta è entrata da protagonista incidendo nella cultura materiale e in quella immateriale che induceva verso sogni e desideri giunti con il Sorgo Turco o Granoturco dalle Americhe sulle navi spagnole e portoghesi.

E alla fine di tante cena tra amici si finiva per cantare: Se i monti fusse de tocio / e i mari de poenta / ohi mama che tociade / de poenta e baccalà….

E se alla fine della cena si avanzava qualcosa? A Padova, un gruppo di signore appartenenti al Fascio Femminile aveva editato un piccolo manuale dal titolo “Alcune ricette di Cucina Antisanzionistica, raccolte, rivedute e sperimentate da una padrona di casa”. Si suggeriva un insieme di usi su come economizzare l’olio, come cucinare la frittata di guerra, senza uova sostituite dai fagiolini, come utilizzare gli avanzi di carne, di pesce, di riso e anche i resti di polenta.

“Se la polenta che abbiamo preparata a mezzogiorno è troppo abbondante, possiamo con una parte di essa preparare un ottimo contorno per la pietanza della sera, stemperandola con un po’ di latte e formandone pallottole che, indorate, si friggono in unto bollente e si servono caldissime”.“I piatti erano di terraglia, quasi tutti erano scrostati e non sempre ve ne erano per tuti. Meglio non parlare delle posate …”
(Terra Nova, settembre 1959, Agnese, anni 67, contadina casalinga).

 Mangiare senza coltivare

“Alla sera per lo più c’era una minestra. La preparavo tagliuzzando sul tagliere un po’ di grasso di maiale; poi mettevo tutto nel paiolo e vi aggiungevo qualche erba raccolta campi, le verze, facevo bollire e dopo un po’ mettevo della pasta fatta in casa, se ne avevo, oppure della farina gialla per renderla più solida. Quando tutto era cotto, il paiolo restava sul focolare e vicino al fuoco. Ci si avvicinava uno alla volta, si prendeva un mestolo di minestra e si tornava a tavola. Dopo la minestra si continuava con un po’ di verdura, noci e, fin che se ne avevano con fichi secchi.”
(Arzercavalli, settembre 1967, Carlina, anni 54, contadina casalinga).“Io ricordo che mia mamma faceva un grande uso delle erbe. Metteva su l’acqua a bollire con un po’ di grasso, aglio, cipolla; poi aggiungeva le erbe che raccoglieva fuori, ad esempio i carletti, la valeriana,le foglie del brusaocio (Taraxacum officinale L.), delle rosole (Papaver rhoeas L.) e di altre erbe che conosceva lei. Le tagliava un poco. A volte ci metteva tante altre erbe che aveva raccolto nei prati e lungo i filari delle viti. Lasciava che tutto bollisse dentro la pentola. Poi, se li aveva ci metteva un po’ di riso e si mangiava. Alle volte invece del riso ci metteva dei fagiolche aveva cotti prima e che poi li aveva schiacciati.”
(Santa margherita, aprile 1959, Amabile, anni 63, contadina casalinga).

Casone Millecampi
Erano tempi grami. La povertà raggiungeva livelli inimmaginabili. Una commissione di inchiesta sulla miseria (1951) riferiva che nel polesine e nella bassa padovana le abitazioni con latrina erano 5 su 100. Non pochi contadini andavano scalzi, la frutta era un lusso, il pane bianco e la pasta un sogno che suggeriva, ai buontemponi, di canticchiare, sull’aria di Mamma: “Paaaasta, / sessanta grammi e poi ti dico baaaasta, / riiiiso, / quando ti mangio sembra un paradiso. / Io mangio sempre zuppa / di cavoli e di verdura / la vita è troppo dura / così non si può andaaaar!“. Dall’America arrivava il “treno dell’amicizia … Avrebbe dovuto alleviare la quotidiana carestia. A scuola si insegnava a recitare “Dal lontano continente / è arrivata la farina. / ce la porta la Marina / di un paese assai potente. / Burro latte e marmellata / per i bimbi e gli ammalati: siamo tanto fortunati, / ci son uova di covata….” Su molti giornali come la “Settimana Incom Illustrata” vi erano foto di mondine immerse nelle risaie con titoli come: “Le mondine sognano la polenta”.

Della denutrizione dei poveri scriveva Sambin (1981, p.24): “In un casone, sotto la poca luce d’un lume a petrolio, rivedo una grande polenta fumante e accanto una grande ciottola (terrina) di terra smaltata, verde all’interno e piena di radicchio non tenero, condito con una goccia di olio e molto aceto: era la cena completa d’un contadino che aveva lavorato tutto il giorno. Unica eccezione la domenica quando sulla mensa poteva comparite un po’ di pane bianco (che festa!) e una minestra di fagioli e magari un po’ di carne suina”.

Su un simile sfondo di povertà è comprensibile come potesse germinare la pellagra: o, per un’amarissima rivincita d’evasione, l’alcoolismo.

“Alcune famiglie comperavano, a buon mercato, dal macellaio la testa di una mucca. La lasciavano bollire nella stagnà per tante ore. Ad esempio da prima dell’alba fino al ritorno dalla messa seconda. Mangiavano la poca carne che si era staccata dalle ossa: la si tagliava fina, fina e si metteva assieme con cipolla, aglio, un filino di olio e tanto aceto. Il macellaio vendeva a buon mercato anche i polmoni, le mammelle, i rognoni, i testicoli e anche le trippe.”
(Arzercavalli, settembre 1959, Marieta, anni 56, contadina casalinga).

Sulla tavola dei benpensanti la polenta diventava una ghiottoneria, specialmente se la si associava alla cacciagione, tanto che Lorenzo Stecchetti annotò: “I tordi più di trenta / in superba maestà / a seder sulla polenta / come turchi sul sofà.

Proseguendo lungo questo percorso, che intreccia filoni di voci, di immagini e ventate di sollecitazioni, in parte disperse, traspare in filigrana il volto di una gastronomia spesso sepolta in quella profonda trama di abitudini, di usi, di modi di vivere che appartengono ai rituali e alle necessità quotidiane dei ceti subalterni e che inducono ad avvicinarsi all’agricoltore, l’uomo della terra e impastato di terra, che scrutava l’orizzonte, osservava il cielo come fosse una sfera enigmatica su cui si riflettono i segnali che provenivano da lontano e da inafferrabili emittenti in grado di captare le voci della natura, il mondo delle cose animate e inanimate, la fuliggine deposta sul camino, lo sfrigolio delle fuoco, le voci e i comportamenti insoliti degli animali, i segni dell’abbandono e della carestia e ancora l’imprevedibilità degli eventi atmosferici, il gracidare delle rane, come indizio di una pioggia attesa. E ancora verso le pratiche di cucina, la circolazione locale di nuove conoscenze e di nuovi usi alimentari, il mutare dei gusti, i tipi di coltivazioni, le tecniche delle culture materiali, le erbe spontanee che integravano e sostenevano la dieta.

Nel campo“Queste erbe le raccoglievano un po’ ovunque, nei prati, nelle siepi, nei fossati, nei boschetti e negli orti dove spesso venivano estirpate perché si diceva che la loro presenza non facesse crescere bene le piante coltivate negli orti. Sono erbe spontanee che hanno rappresentato una risorsa. Spesso sono state usate contemporaneamente come cibo e come medicina.”
(Civè, maggio 1961, don Bruno, parroco dal 1954).

“Io raccoglievo delle erbe fresche, che crescevano nei campi, le lavavo e le lessavo in acqua salata, le strizzavo bene e le tagliavo in piccole parti. Vi aggiungevo delle uova che avevo sbattuto a parte e del formaggio. Amalgamavo tutto e facevo delle piccole polpette che schiacciavo. Poi le mettevo in una pentola ove precedentemente avevo riscaldato dell’olio di oliva, e le friggevo. Le portavo in tavola così oppure le trasferivo in un tegame ove avevo preparato un sughetto e le servivo come se fossero state cotte in umido”
(Pontelongo, marzo 1957, Giulia, anni 59, possidente terriera).

Mio marito compiva gli anni il 12 ottobre. Per quell’occasione mi diceva. Preparami la zucca, come me la cucinava tua mamma. Io allo prendevo una zucca piccoletta, di quelle con la scorza verde. La tagliavo e pulivo eliminando tutta la parte esterna. La cuocevo fino a che diventava tenera. Una volta cotta, la tiravo fuori dall’acqua e la schiacciavo con le mani e la forchetta fino a ottenere una specie di purea. Questa purea la mettevo in un’altra pentola ove la facevo soffriggere in un po’ di olio, un po’ di salame, una cipolla tagliata fine e un po’ di prezzemolo. Mescolavo bene tutto e cuocevo per qualche minuto. Spegnevo il fuoco e univo un bel po’ di formaggio grattugiato e un uovo montato a neve. Amalgamavo tutto molto bene, versavo in una pentola unta con olio e pane grattugiato e mettevo in forno caldo per un bel po’ di tempo. Era una festa. Ne mangiava tanta e poi mi diceva “Sono proprio contento di averti sposato…” … ai miei figli, durante l’inverno, preparavo i semi di zucca; prendevo i semi secchi, li mettevo nel forno caldo della cucina economica, li lasciavo lì per un po’ di tempo e, una volta cotti, li tiravo fuori, li mettevo su un piatto, ci versavo sopra un po’ di sale e li mangiavamo tutti insieme.
(Arzercavalli, 1960, Angelina, anni 43, contadina-casalinga)

Terminate le gelate notturne, quando i primi tepori della bella stagione si facevano sentire sulle piante e su tutti noi, le cercavamo sulle rive dei fossati, lungo le siepi che allora cingevano i limiti dei campi e separavano i prati, delimitavano gli orti, vicino ai muri, nei prati abbandonati, nei luoghi incolti e tra i filari delle viti già potate e legate, le individuavamo, le coglievamo e tornavamo a casa. Si raccoglievano cicorie, carota, consolida, raperonzolo, tarassaco, carletti, salvia, alloro, crescione e tante altre. A volte le pestavano con un po’ di ricotta e di latte, fino ad ottenere un impasto morbido che si spalmava sul pane: un cibo povero, una ricetta semplice La minestr,a che era più usata, era quella di fagioli. E le donne, da queste parti, erano veramente brave a prepararla anche quando scarseggiavano gli ingredienti. Il che era assai frequente. La faceva con tutto. Sembrava come una cioccolata.
Così anche per il caffè. Me lo preparavo con i vinaccioli dell’uva: li tostavo in casa con la”bala” sul fuoco del camino. Poi la aprivo a metà e dovevi sentire il profumo che esalava e che penetrava in tutte le camere. Li riducevo in polvere con il macinino e, se avevo un po’ di “Miscela Leone”, la aggiungevo…aumentavo così la quantità di polvere e avevo un aroma migliore … poi me lo preparavo nella cogoma di ferro smaltato: facevo bollire un po’ di acqua, vi aggiungevo un po’ di polvere e mescolavo con attenzione per evitare che uscisse dal pentolino.

(Civè, maggio 1961, don Bruno, parroco dal 1954).

Queste e molte altre erbe con le loro radici, foglie, fiori e frutti selvatici disperse su un territorio raccontano le loro storie, le loro memorie, le loro consuetudini; rappresentano un deposito di biodiversità alimurgica; sono la testimonianza di un passato etnobotanico e celano un patrimonio ambientale di elevato contenuto antropologico e scientifico poiché nelle cronache delle carestie queste erbe sono diventate cibi-medicina succedanei dei cereali, dei legumi, delle verdure dell’orto e dei frutti coltivati.

Quello che colpisce in queste consuetudini è il lato umano della vita. Tutte hanno un passato, tutte hanno radici lontane, tutte hanno contribuito a segnare l’imprescindibile tracciato di una storia che appartiene a tutti; tutte hanno messo in gioco questioni ben più vaste dei destini individuali.

Una cultura scomparsa

Quando si prendono tra le mani, queste erbe spontanee, cercate in un paziente andirivieni tra i filari degli alberi e gli argini dei canali, continuano a riaffiorare la presenza di una scienza empirica, di una conoscenza sperimentale suggerita dalla consuetudine, intrufolata tra gli usi quotidiani che utilizzavano determinate risorse in un determinato ambiente fisico e sociale. Una cultura alimentare, nata dalla frequentazione del territorio disteso, appena oltre la soglie delle povere dimore contadine, e dall’accumulo di dati ed esperienze che tale frequentazione ha consentito e determinato. L’uso alimentare acquisito ha richiesto un preciso addestramento, una “cultura” che si è andata formando solo in seguito ad una precisa conoscenza del territorio e dalle informazioni apprese da parte di coloro che, a loro volta, le avevano apprese da chi aveva prestato attenzione alle risorse naturali dell’incolto, ma anche nell’ambito delle comuni pratiche agricole e colturali. In queste pratiche, contadini erano spinti dalla necessità del sopravvivere quotidiano, dalla maggior disponibilità dei prodotti e dalla attenzione a riempire lo stomaco. Per questo tutto ciò che era abbondante diventava vile (cibo da villani), mentre le spezie erano “cibo da gentiluomini”.

Ora queste erbe sono abitate da un’irreprimibile nostalgia per una Saccisica che non c’è più e anche se faticano ad intrecciare un dialogo tra l’attuale mutismo dell’incomprensione reciproca, con chi le cerca, si fanno autobiografia e penetrano nei territori più segreti del vivere e del morire, dell’amare e del pregare, del sacro e del profano, ricordando che mai, come in certe occasioni, la carestia, la penuria, la miseria e una precisa conoscenza delle risorse del territorio, unita a un bagaglio di informazioni, trasmesse da parte di coloro che vi avevano abitato, hanno stimolato la fantasia degli umili e consentito ad una cucina del poco, del senza, del non si sa mai, di trasformare le ansie e i morsi della fame in altrettante occasioni gastronomiche. Fu così che la ricerca delle soluzioni da inventare, in caso di urgenza alimentare e di precarietà della salute, diede vita ad una alimentazione terapeutica che nulla ha a che fare con l’immagine spontaneistica ed istintiva, che molto spesso continua ad attribuire a un ideale mondo rurale ed arcadico, la prerogativa che tutto ciò che è verde è buono da mangiare e per curare. Tutto invece fu il risultato di scelte, di tentativi, di conoscenze tramandate e, in un momento come questo in cui stiamo vivendo e in cui non si sa dove stiamo andando, è importante sapere almeno da dove veniamo. A questo si lega il presente lavoro che propone il recupero di alcune testimonianze, alimentari e fitoterapeutiche, che risalgono agli inizi della seconda metà del secolo scorso e che provengono dalla voce della gente comune della Saccisica.

Le informazioni sulle specie spontanee ad uso alimentare e terapeutico, raccolte nel territorio della bassa padovana, in generale, e della Saccisica, in particolare, hanno consentito di stendere un elenco di piante. Di oltre la metà si usavano le parti aeree (foglie, fiori, giovani germogli, fusto), di alcune si raccoglievano le radici, di altre, i frutti o i semi.

dente di leone (Taraxacum officinale Web.)La preparazione gastronomica delle parti aeree era una gran varietà di zuppe, brodi, minestre, pesti, risotti, frittate, erbe cotte in acqua e condite con olio e aceto e ancora erbe saltate in padella con olio o grassi di maiale, insalate primaverili. Non solo. La maggior parte delle specie, usate nei minestroni contadini, sono comuni al pistic friulano (Lorenzoni, 1989; Dreon, 1995), alla “minestrella” toscana (Pieroni,1999), al prebuggiun ligure (Bisio e Minuto, 1998). Tutte venivano preparate partendo da un soffritto di aglio, lardo e un po’ di cotenna di maiale cui si
aggiungeva le erbe tritate e fagioli precedentemente lessati e poi ridotti in purea (Pieroni, 1991). Il tutto infine veniva allungato con acqua e portato a cottura, regolando con un po’ di sale, a fuoco lentissimo per unbel po’ di tempo (un paio di ore?). Le tre preparazioni e l’uso comune di molteplici specie (tra queste il farinello (Chenopodium album), i carletti (Silene sp.), il tarassaco (Taraxacum officinale), il papavero (Papaver rhoeas), …) potrebbe indurre a supporre una consuetudine arcaica contadina.almeno preromana (Pieroni, 1999).

Nella bassa padovana e nei Colli Euganei, è da osservare, come venivano usati, dopo una bollitura in acqua i giovani getti della vitalba (Clematis vitalba L.), una pianta relativamente tossica per il contenuto di protonanemonina, un principio attivo ad azione vescicante, caratteristico di tutte le ranuncolaceae, l’acetosella (Oxalis acetosella L.), (il cui uso attualmente è stato abbandonato a causa dei disturbi che potrebbero determinare, la formazione di cristalli di ossalato di calcio, nel tratto gastrointestinale e nelle vie renali), i giovani getti della Zucca matta (Bryonia dioica L.), il cui latice è un forte irritante cutaneo.

Ognuna cela semplici segreti in cui la semplicità non sempre significa povertà. Sono usi che propongono ed evocano una società casalinga segnata da affetti riservati, carezzate trattenute, lindi cuscinetti di tela riempiti con foglie e fiori risposti negli armadi per allontanare le tarme e impregnare la biancheria di indefiniti, delicati profumi.

La più comune preparazione alimentare era rappresentata da una abitudine di lessarle in acqua oppure di preparare delle zuppe domestiche.

“La minestra con le erbe si preparava facendo prima un soffritto di lardo di maiale e un po’ di carne di maiale, poi si aggiungevano le erbe tagliate fini e se ne avevo anche dei fagioli che avevo prima lessati e un po’ di patate cotte. I fagioli e le patate precedentemente li avevo passati in modo da avere a disposizione una sorta di puré. Il tutto veniva allungato con acqua. Cucinavo tutto per un bel po’ di tempo e a fuoco basso. Qualche volta per non renderla troppo brodosa aggiungevo un po’ di farina gialla”
(Civè, maggio 1961, don Bruno, parroco dal 1954).

In primavera faceva capolino anche una frittata pasquale. “Parecia“, era l’ordine, “in una teglia un sofritto di oglio, fallo solo soffriggere sulle brace accese sopra un trepiedi e quando questo sia aliquanto rosolato unisi mezo bichiere di vino bianco e accomoda alcune uova assodate che avrai sgusciato e tagliate in mezzo, lascia prendere loro il caldo, giungi per ultimi due o tre tuorli di ova sbatuti insieme ad un poche di erbe, del parmigiano grattato e cannella in polvere. Lascia legare la salsa e servi calda.” (Ricettario anonimo, inizi secolo scorso).

Una pietanza pasquale che rinvia all’uovo e a un simbolismo che si trovava, nel sussidiari delle scuole elementari, nelle cartoline con le campane e con il Cristo che usciva dalla tomba, un nesso tra l’uovo e la risurrezione. Il sepolcro potrebbe essere comparabile al guscio da cui usciva Cristo risorto. Ecco allora che le uova rotte evocano la risurrezione; le uova, tinte di rosso, il sangue di Cristo; le uova, tinte di giallo, la festa della resurrezione; le uova tinte di verde, la natura che si sta risvegliando e la speranza che la terra continui a dare i suoi frutti Una sorta di concreta catechesi sulla risurrezione di Cristo, sulla vita matrimoniale.della famiglia e sulla futura prole.

Nel mondo rurale il simbolismo dell’uovo conduce anche verso la benedizione delle uova, della casa, del letto e l’offerta delle uova durante le rogazioni, la serca di ovi, da parte del sacrestano, i dolci preparati spontaneamente. Le donne si affidavano alla loro inventiva, che doveva sempre fare i conti con i soliti ingredienti: farina di frumento, uova, zucchero, burro, buccia di limone grattugiata, un pizzico di sale, una bustina di lievito Bertolini. La torta che si otteneva era la tipica fugassa, morbida, fragrante, che tuttora si porta dietro un linguaggio ricco di desideri smarriti e di sogni che seguivano con naturalezza il quotidiano e che ora portano a galla storie che si desiderava incominciassero e invece sono rimaste racchiuse nel cassetto della memoria.

E ora, giunti alla fine di questo divagare in Saccisica, il solitario viaggio nell’anima contadina di questa gastronomia padovana finisce, dopo aver spulciato qua e là, tra le pagine di un diario di frammenti in cui ciascuna sembra appartenere a un foglio sospeso o appena abbozzato di ricordi di infanzia, di ritagli di storie, sospese fra la malinconia e l’orgoglio, fra pensieri di fedeltà alla propria terra, alberi, luci, colori, silenzi, rumori del silenzio e ancora squarci di paesaggi, che tuttora irrompono e si propongono a un qualsiasi abitante di questa terra che si alza ogni mattina e si siede a tavola per la colazione. Beve una tazza di tè, bevanda tipicamente indiana, addolcita con un cucchiaio di zucchero, raffinato per la prima volta in India. Mangia una fetta di pane, importato nella Magna Grecia in epoca prelatina dai greci, spalmato con una marmellata di provenienza orientale. Oppure sorbisce uno yogurt, un cibo di cui si nutrivano i poveri in Turchia e che noi abbiamo importato e diffuso, e una spremuta di arancia, frutto che proviene dall’Oriente e che gli Arabi hanno ampiamente diffuso nei paesi perimediterranei.

A pranzo, che ora si indica come pausa pranzo, deglutisce un bel piatto di risotto, magari alla milanese e si sa che sia il riso e sia lo zafferano sono arrivati dall’oriente. Poi assume una cotoletta impanata o una bistecca ai ferri o della frittura mista, cibi che appartengono a tutte le culture. Le guarnisce con le patate arrosto, giunte dall’America, o spinaci, giunti dal Nepal, o melanzane ai ferri, importate in Sicilia e Spagna dagli arabi o pomodori, una curiosità esotica proveniente dalle lontane Americhe.

A cena ovviamente polenta di mais (il mais arriva dall’America), magari con tacchino (animale giunto dall’America) o una braciola di maiale (addomesticato per la prima volta in Cina, oltre diecimila anni fa).

Alla fine, se ha tempo e voglia. prima di andare a letto beve un grappino (i distillati giunsero in Europa tramite i farmacisti arabi) e, pensando che gli immigrati hanno inquinato e rovinato ogni identità padana, ringrazia il Dio degli ebrei di essere riuscito a rimanere al cento per cento un padano doc.

A loro, cosa possono continuare a dire queste minime realtà contadine in cui le donne sapevano rispettare il lunario che scandiva le antiche tradizioni di questa terra, legate alla ciclicità delle colture dei campi, e sapevano unire buon senso, solidarietà e sentimentalismo?