Aree umide

di Paolo Reggiani

Nel mondo moderno la palude viene vista come un ambiente negativo, economicamente non produttivo e quindi da bonificare. In età romana le risorse del bosco e degli acquitrini avevano invece la stessa importanza di quella dell’ager. Secondo Strabone in tutta l’Italia del nord, ma soprattutto nel territorio dei veneti, si trovavano moltissime paludi che erano parte integrante del paesaggio rurale e l’acqua era spesso “ambiguamente” mescolata alla terra. Plinio ricorda le vindemiae in palustribus nel territorio patavino. La documentazione altomedioevale ci riporta spesso esempi di economie miste, dove le aree palustri venivano sottoposte a particolari coltivazioni e nelle quali si praticavano attività quali la caccia e la pesca, che erano spesso le principali fonti di sostentamento. Era sviluppata quindi un’agricoltura palustre, per esempio quella della canna e della vite del cecubo (Traina, 1988).

In tempi più recenti Augusto Béguinot, nella sua opera “Flora padovana” del 1909, cita spesso le valli di Piove, le paludi lungo il Brenta presso Corte e quelle fra S. Margherita e Codevigo. Segnala inoltre il ritrovamento presso Codevigo di Cirsium canum: una composita legata agli ambienti umidi planiziali, diventata molto rara e sporadica in seguito alle profonde modificazioni subite dalla Pianura Padana. Da informazioni sulla cattura di due esemplari di gobbo rugginoso (Oxyura leucocephala) nelle paludi di Piove di Sacco, acquistati al Mercato di Padova il 25 novembre del 1894 da Giacomo Bisacco Palazzi (1935) e di un marasso (Vipera berus) raccolto nel 1821, possiamo dedurre che attorno a Piove di Sacco, nell’ottocento, esistevano ancora vaste paludi ricche di vegetazione. Secondo Arrigoni Degli Oddi (1895) e De Betta (1857) il marasso, nel “basso Padovano”, era una specie esclusiva di località paludose, molto estese prima delle intense opere di bonifica idraulica, operate con idrovora meccanica, sviluppate dalla seconda metà del 1800. Oggi il gobbo rugginoso (un’anatra di aspetto insolito, con il becco azzurro, rigonfio alla base) è scomparso da quasi tutta l’Italia ed è uno degli animali a maggior rischio di estinzione nel Paleartico occidentale. Pochi territori hanno avuto modificazioni quanto quelle subite dalla Pianura Padana; dove foreste e paludi sono scomparse. Le ciclopiche opere della Repubblica di Venezia con la deviazione del corso dei grandi fiumi veneti, ha contribuito a trasformare radicalmente il territorio.

L’antico paesaggio agrario padano, caratterizzato per secoli dalle alberate, ha lasciato oggi il posto ad una pianura definibile come steppa a cereali. Con la scomparsa delle piantagioni a olmi e viti, viene a mancare negli anni sessanta una sorta di compromesso ecologico perseguito dai nostri antenati, che aveva garantito un certo equilibrio ambientale, preservando una buona varietà di piante ed animali. Gli alberi più caratteristici di questo paesaggio erano gli olmi, gli aceri, i salici, i pioppi, i gelsi e i noci.

Tra gli animali la puzzola (Mustela putorius), legata ad ambienti alberati con fitta vegetazione arbustiva ed aree umide, da decenni non è più segnalata nel territorio della Saccisica. Un esemplare imbalsamato, catturato a Piove di Sacco negli anni settanta del secolo scorso, si trova in una collezione privata.

Mustela nivalis
Mustela nivalis

La donnola (Mustela nivalis) invece è ancora piuttosto diffusa, osservata a Corte, Codevigo, Vallonga, Tognana (in prossimità del “Bosco di Pianura”), mentre la faina (Martes foina) è presente ma poco comune; un esemplare adulto è stato investito da una automobile in località Porto di Campagnola il 25 novembre 1993. Negli anni ottanta è stato ucciso un visone americano (Mustela vison), lungo una rotabile, in un area rurale del territorio di Brugine. Questa specie alloctona, di provenienza nordamericana, fuggita da alcuni allevamenti, è stata segnalata in diverse località del Veneto e del Friuli Venezia Giulia. Da diversi anni viene frequentemente segnalata anche la volpe (Vulpes vulpes) in gran parte del territorio della Saccisica. Questo canide particolarmente versatile è oggi ritornato nella bassa pianura padano-veneta, estendendo così il suo areale di distribuzione in aree agricole che offrono risorse alimentari sufficienti a sostenere nuclei stabili.

Nel Bosco di via Breo vive il moscardino (Muscardinus avellanarius): un piccolo ghiro, abile arampicatore ghiotto di nocciole e bacche, che predilige le aree boschive con fitto sottobosco. Presenta un mantello morbido e folto di colore bruno-arancio, piccole orecchie e coda ricoperta di pelo. Il suo piccolo nido sferico, costruito con fili d’erba e foglie intrecciate, si trova generalmente sui cespugli, mentre d’inverno si prepara un giaciglio nelle cavità di tronchi. Alcuni vecchi agricoltori raccontano che questo timido “folletto”, chiamato “maregola“, si muoveva nei frutteti e faceva avvertire la sua presenza nelle caldi notti d’estate. Da diversi anni una colonia di gufi comuni, composta da 10-12 esemplari, sverna su tre Pini marittimi situati in un giardino privato a Campolongo Maggiore. Il contesto ambientale è caratterizzato da un paesaggio agrario con monocolture, a poca distanza da un canale di bonifica. Dallo studio delle borre di questi animali è risultato che il 34% delle loro prede sono costituite da topo selvatico, il 28% dall’arvicola di Savi ed il 29% da uccelli (Bon et alii, 1998).

Rana latastei
Rana di Lataste (Rana latastei)

Nel territorio della Saccisica, ormai fortemente urbanizzato o sottoposto ad attività agricole, sono scomparsi quasi tutti i biotopi naturali. Gli unici ambienti dove troviamo ancora oggi una interessante erpetofauna (anfibi e rettili) sono costituiti da fossati interpoderali, canali, pozze d’acqua e dalle aree umide di “Brenta Secca”, a Corte di Piove di Sacco, di “Cava Carraro”, a Boion di Campolongo Maggiore e di Cà di Mezzo, a Codevigo. In alcuni fossati a Tognana, Albora, Corte e a Cava Carraro è presente la rana di Lataste (Rana latastei), un endemismo padano legato ad ambienti forestali umidi. Simile alla rana agile (Rana dalmatina), si differenzia da questa per la colorazione del ventre tipicamente rosata, il sottogola scuro e la banda chiara a lato della bocca che raggiunge appena l’occhio. Le ridotte popolazioni relitte presenti nel territorio sono quello che resta del complesso di esemplari che abitavano il querco-carpineto, formazione forestale a latifoglie di pianura, caratterizzato dalla presenza di farnia, carpino bianco, ontano nero e frassino ossifillo. Questi animali hanno bisogno di una lettiera vegetale che mantenga sempre un certo grado di umidità, a differenza di altri anfibi, le cui forme adulte tollerano anche ambienti asciutti. Le rane di Lataste, presenti a Tognana, sono state oggetto di una dissertazione di laurea, sviluppata da Sonia Angelone presso il Dipartimento di Ecologia dell’Università di Zurigo, in Svizzera. L’importanza di questa piccola popolazione sta nel fatto che il territorio in cui vive si trova ai margini dell’areale di distribuzione della specie. La ricerca ha messo in evidenza come il basso livello di variabilità genetica, dovuto principalmente ad un elevato livello di consanguineità, ponga dei seri problemi per la futura conservazione della specie, che riesce a rispondere inadeguatamente a qualsiasi tipo di cambiamento ambientale, dovuto soprattutto all’attività umana. Dal 2003 alcuni ricercatori dell’Università di Torino hanno iniziato uno studio sulle caratteristiche del canto e del comportamento della Rana di Lataste lungo il suo areale di distribuzione. Una delle popolazioni prese in considerazione si riproduce sempre a Tognana, in un piccolo tratto di un canale circondato da vegetazione riparia (salici e platani) che attraversa un’area totalmente coltivata. Il tratto di canale è caratterizzato da assenza di pesci ed è frequentato da altri anfibi. Questa rana ha un comportamento assai schivo e non è facile individuarla. I risultati fino ad ora ottenuti dallo studio mettono in evidenza le differenze morfometriche tra popolazioni, differenze che aumentano con l’aumentare della loro distanza chilometrica. Le popolazioni studiate differiscono anche per le caratteristiche del canto (Elena Marzona com. pers.). Questo anuro è inserito nella Convenzione di Berna (all.2) e nella Direttiva “Habitat” (Dir. 92/43/CEE). La Rana verde (Rana cl. esculenta) è l’anfibio più comune, presente in quasi tutti i fossi.

In alcuni fossati agricoli e in canali come lo Scolo Schilla, lo Scolo Paltana, il Canal Morto, lo Scolo Cavaizza e a Brenta Secca è presente la Testuggine palustre europea (Emys orbicularis). E’ un animale che predilige acque ferme o debolmente correnti, ricche di vegetazione; timido ed agile, quando è disturbato il rettile si tuffa in acqua nuotando velocemente. Di giorno è possibile scorgere l’animale presso le rive dei corpi idrici o su tronchi affioranti dall’acqua, dove si riscalda al sole. Questa testuggine è scomparsa da molte regioni d’Europa, tanto che oggi è protetta in diverse nazioni. In Italia è protetta dalla Legge n. 503-1981, che ne vieta la cattura, la detenzione e mira a conservare gli ambienti dove vive.

Triturus vulgaris
Tritone punteggiato (Triturus vulgaris)

Il Tritone crestato (Triturus carnifex) e il Tritone punteggiato (Triturus vulgaris) sono presenti in fossati con poca acqua stagnante, tra le foglie in pozze d’acqua fangose, sotto cortecce seminfossate, dove si accoppia e depone le uova. Sono predati assiduamente da varie specie ittiche, per cui evitano i corsi d’acqua da loro abitati. Svernano infossati nel terreno umido e nei tronchi marcescenti, mentre nei mesi più caldi cercano rifugio in luoghi umidi come lettiere e zone fangose. Si nutrono principalmente di artropodi, anellidi, uova e giovani di altri anfibi.

La Raganella (Hyla intermedia) un tempo molto diffusa è oggi presente solo in pochi specchi d’acqua con abbondante vegetazione igrofila, circondati da canneti e da arbusti sui quali si arrampica agilmente, stazionando in cespugli anche ad alcuni metri dal suolo. Il suo straordinario mimetismo la rende quasi invisibile quando è immobile, appoggiata su foglie e steli. Nelle notti d’estate si muove alla ricerca di insetti ed emette il suo caratteristico gracidio ritmico e ripetuto, udibile anche da lontano.

La scomparsa del rospo comune (Bufo bufo) da gran parte della bassa pianura padano-veneta è dovuta al massiccio impiego di pesticidi in agricoltura ed alla mancanza di ambienti idonei alla sua sopravvivenza come siepi, boschetti, fasce arboree ed arbustive riparie, aree incolte. Sono inoltre scomparsi stagni e grandi pozze con livello d’acqua costante e rive coperte da abbondante vegetazione dove si riproduceva questo anuro abitudinario, fedele ai siti di riproduzione, che corrispondono ai luoghi di nascita. Anche il traffico stradale rappresenta una causa di mortalità rilevante; un gran numero di individui adulti infatti vengono uccisi durante le migrazioni in massa dai siti di svernamento a quelli di riproduzione. Devono essere smentiti i pregiudizi culturali, secondo i quali sarebbe un animale pericoloso. La bufalina che secerne dalle ghiandole epidermiche è una sostanza solo irritante per le mucose del naso, della bocca e per gli occhi. Uno degli ultimi avvistamenti recenti di Rospo comune riguarda il Comune di Arzergrande. Più frequente e diffuso risulta invece essere il rospo smeraldino (Bufo viridis).

Hierophis viridiflavus
Biacco (Hierophis viridiflavus)

Nel territorio della Saccisica sono state rilevate tre specie di serpenti (Reggiani, 1993): il più comune è la natrice dal collare (Natrix natrix), ottima nuotatrice, presente in molti fossi, canali e scoline, dove va a caccia di rane. Assolutamente innocua, l’unica sua difesa se aggredita, è quella di rigurgitare il contenuto dello stomaco o fingersi morta. Il biacco (Hierophis viridiflavus) è piuttosto diffuso in luoghi soleggiati e asciutti come gli argini del Brenta, Bacchiglione e Valle Millecampi. Alcune tradizioni popolari, che riguardano questo grande serpente di colore nero, conosciuto nel nostro territorio con il nome popolare di “carbonasso“, lo ritengono in grado di “frustare” le persone che gli si avvicinano, con la parte posteriore del corpo; in realtà quando è disturbato cerca di fuggire e se catturato può mordere, ma è un serpente privo di veleno. Meno comune è invece il piccolo colubro liscio (Coronella austriaca), segnalato a Piove di Sacco e Pontelongo, in prossimità di fitte siepi. Il ramarro (Lacerta bilineata) è un rettile in forte declino, presente oggi principalmente lungo gli argini dei fiumi.

Negli ultimi decenni sono state introdotte dall’uomo, nella Pianura Padana, diverse specie animali spesso estremamente dannose per gli ecosistemi occupati. In tutti i canali e le aree umide della Saccisica è presente la nutria (Myocaster coypus), un grande roditore sfuggito dagli allevamenti negli anni ’60 e ’70. I danni prodotti da questo animale riguardano principalmente i vegetali di cui si nutre, la distruzione di nidi dell’avifauna nidificante a terra e l’indebolimento degli argini dovuto alla sua attività fossoria (Andreotti et alii, 2001). La testuggine dalle orecchie rosse (Trachemys scripta elegans), una tartaruga acquatica proveniente dal nordamerica, acquistabile presso i negozi di animali fino al 1997 (l’importazione è bandita dalla UE: Regolamento CE n. 338/97, ma ne vengono oggi importate altre con analoghi risultati) e poi spesso liberata dai privati che vogliono disfarsene, crea problemi alla meno aggressiva testuggine palustre europea con la quale entra in competizione e provoca danni diretti ad anfibi, pesci e molluschi.

Nonostante l’elevato degrado e le manomissioni subite dagli ambienti naturali, nel comprensorio della Saccisica rimangono ancora alcuni biotopi relitti di notevole valore naturalistico ma estremamente vulnerabili, dove troviamo forme biologiche scomparse dal territorio circostante. La pianificazione territoriale deve quindi prevedere una tutela efficace di queste aree particolarmente importanti per la salvaguardia di una flora e una fauna peculiari, un campionario di quella che oggi definiamo biodiversità.

Cà di Mezzo

Negli ultimi decenni l’uomo ha operato una rapida distruzione dei pochi ambienti naturali rimasti, causando la scomparsa o rarefazione di molte specie animali e vegetali. Un caso particolare è Cà di Mezzo, località situata nel Comune di Codevigo, dove è stato realizzato un particolare progetto, in controtendenza rispetto alla politica attuale di gestione del territorio, finalizzato alla fitodepurazione delle acque scolanti in Laguna di Venezia. Con fondi regionali, il Consorzio di Bonifica Adige-Bacchiglione ha realizzato un sistema di bacini e canali che costituiscono una zona umida di circa trenta ettari di estensione, collocata tra il Fiume Bacchiglione e il Canal Morto, in un’area interessata da un paleoalveo del Bacchiglione, caratterizzata dalla presenza della superficie di falda a ridotta profondità. Terminate le operazioni di sistemazione idraulica, il Servizio forestale ha eseguito l’impianto di specie autoctone arboree ed arbustive. Questi lavori hanno dato l’opportunità di intervenire creando le condizioni per la ricomposizione di un ecosistema palustre. Dal 2003 è stata affidata la gestione naturalistico-didattica dell’area al Circolo della Legambiente di Piove di Sacco.

Giglio d'acqua (Iris pseudacorus)
Giglio d’acqua (Iris pseudacorus)

A Cà di Mezzo si sta sviluppando una comunità di macrofite acquatiche (Phragmites, Typha, Carex, Nuphar, ecc.) che formano una complessa rete di rizomi e di radici nel sedimento colonizzato, ricco di sostanza organica, importante componente ambientale in grado di dare ospitalità ad un gran numero di macroinvertebrati (insetti, molluschi, anellidi) e nutrimento ad uccelli, mammiferi insettivori, anfibi e rettili. In prossimità dell’acqua, in luoghi saltuariamente inondati, si rinvengono il giglio d’acqua (Iris pseudacorus) e il giunco. All’interno di quest’area e rimasto un ridottissimo lembo di bosco igrofilo, costituito da vecchi salici (Salix alba) capitozzati e da una particolare flora erbacea. Le cavità dei loro tronchi vetusti sono lo spazio vitale per molti vertebrati, quali ad esempio il riccio (Erinaceus europaeum) e la cinciallegra (Parus major), e per alcuni insetti, come lo splendido cerambice del salice (Aromia moschata), che si nutre del loro legno. Molte specie di anatidi, ardeidi, trampolieri, rapaci e svassi sono presenti durante tutto l’anno. È stato avvistato il raro ed elusivo tarabuso (Botaurus stellaris), di abitudini crepuscolari (Saulo Pagliaro com. pers.). Il tarabusino (Ixobrychus minutus) nidifica regolarmente nei canneti del Canal Morto dove costruisce il nido a 20-30 centimetri di altezza dall’acqua. Vive nascosto tra la fitta vegetazione e quando è minacciato da un pericolo resta completamente immobile, con il becco ed il collo allungati verticalmente, in maniera tale da formare una linea parallela al fusto delle canne e quindi rendersi invisibile. Nel maggio 2003 è stata avvistata una coppia di gufi comuni (Asio otus) nel nido costruito nella cavità di un tronco di salice e il 31 maggio ne sono usciti tre pulli rimasti poi nel boschetto per tutta l’estate.

Tra i fiori presenti più significativi, ricordiamo l’elegante campanellino estivo (Leucojum aestivum), caratteristico delle praterie umide, in rarefazione in tutto il territorio nazionale e protetto da alcune leggi regionali (Paola Borella com. pers.). Il Canal Morto inoltre, nel tratto che scorre a ridosso di Cà di Mezzo, presenta una folta vegetazione naturale riparia. Queste fasce vegetali, lasciate alla libera evoluzione, incorniciano il canale, che acquisisce un aspetto “selvaggio” ricco di colori e forme. La fauna ittica è particolarmente ricca, con specie autoctone come il luccio (Esox lucius) e la tinca (Tinca tinca) che negli ultimi anni hanno subito un rapido declino, probabilmente da mettere in relazione ad un concomitante aumento di alcune specie alloctone. Particolarmente varia è la terriofauna dell’area, che comprende il topolino delle risaie (Micromys minutus), tipico abitante degli ambienti umidi con fitta vegetazione erbacea ed arbustiva, l’arvicola di Savi (Terricola savii), frequentatrice di zone non sottoposte ad agricoltura intensiva come prati umidi e boschi, il toporagno della selva di Arvonchi (Sorex arunchi), la crocidura minore (Crocidura suaveolens) e il topo selvatico (Apodemus sylvaticus). Il topolino delle risaie, abile costruttore di nidi sferici pensili, ancorati ad alti steli di graminacee, è uno dei roditori più piccoli d’Europa. La coda prensile lo aiuta ad arrampicarsi agilmente lungo gli steli di vegetazione erbacea a fusto alto. I toporagno sono piccoli ed elusivi animali notturni, utilissimi perché si cibano prevalentemente di insetti, ragni e lumache. Trascorrono il giorno nascosti in tane che scavano nel terreno, in aree ricche di fitta vegetazione, mucchi di foglie cadute e in vecchi alberi cavi. Tra questi il toporagno della selva di Arvonchi è un interessante insettivoro recentemente scoperto durante lo studio dei micromammiferi presenti nei boschi planiziali della Pianura Padana centro-orientale.

Brenta Secca

Questo biotopo, oggetto della tesi di laurea di Massimino Siviero (1983-84), è il residuo di una vasta palude che si è formata dopo l’ultima deviazione del Brenta avvenuta nel 1858. L’area compresa fra il vecchio argine sinistro del Brenta, dove oggi scorre la strada provinciale Dolo-Corte-Chioggia, e il nuovo argine sinistro del fiume restò abbandonata e vi si formarono stagni ed acquitrini. L’ambiente di Brenta Secca è oggi caratterizzato dalla presenza di Carex elata. Nelle zone più depresse, costantemente allagate, troviamo bassi cespugli di salice cenerino (Salix cinerea) che formano fitti labirinti lungo le sponde dei fossati, dove vive anche la ninfea bianca (Nymphaea alba). Nell’area si trovano piante erbacee legate a paludi di acqua dolce, ormai rare o poco comuni, alcune di queste microtermiche, cioè tipiche di ambienti freschi, dove si verifica l’affioramento di acque fredde. Questo biotopo è in parte ricoperto da estesi cariceti, che in passato erano un elemento frequente nella Pianura Padana, mentre oggi sono divenuti rari in seguito alle opere di bonifica.

Remiz pendulinus
Pendolino (Remiz pendulinus)

Tra le molte specie animali che trovano in questa oasi un luogo di rifugio, sosta e riproduzione, vie è la cannaiola (Acrocephalus scirpaceus), un piccolo passeriforme che si nasconde fra l’intricata e compatta vegetazione formata principalmente da cannuccia (Phragmites australis) e il pendolino (Remiz pendulinus). Nella primavera del 2004 una coppia di pendolini ha nidificato a Brenta Secca: è stato infatti trovato il loro caratteristico nido oscillante, appeso ad un ramo di salice, costruito con lunghi filamenti d’erba, peluria dei semi di salice, pioppo e canne. Generalmente il maschio e la femmina intrecciano i filamenti di fibra vegetale in maniera tale da costruire un “cestello”, poi completano la struttura imbottendola con lanugine vegetale. Vivono in ambienti umidi con abbondante vegetazione ripariale e si nutrono prevalentemente di insetti e ragni che trovano fra la vegetazione, mentre d’inverno mangiano semi di piante erbacee, specialmente dei giunchi e delle canne.

Cava Carraro

Cava Carraro è una interessante zona umida di circa 15.000 m2 di estensione, formatasi dopo i lavori di costruzione degli argini del Brenta, costituita da pozze d’acqua alimentate dalla falda freatica, dove si distingue una vegetazione tipicamente palustre e un boschetto igrofilo particolarmente suggestivo per l’intricato groviglio di alberi, alcuni caduti ed affioranti parzialmente dall’acqua. In molti tronchi di piante morte sono visibili i fori rotondeggianti scavati dal picchio rosso maggiore (Picoides major). Questo uccello si riconosce facilmente per la sua livrea bianca e nera, arricchita nei maschi da una macchia rossa nella nuca. È facile sentirlo mentre “tambureggia” rapidamente sui tronchi degli alberi o scorgerlo alla ricerca di insetti, sotto le cortecce. Il legno morto è importante oltre che per l’ecologia del picchio, anche per altre centinaia di specie animali, soprattutto coleotteri e ditteri. Le cavità marcescenti costituiscono ambienti indispensabili per faune specializzate e rare. Lo sradicamento degli alberi ripristina il naturale rimescolamento dei sedimenti del terreno, e le buche prodotte vengono riempite da foglie che creano habitat umidi e soffici. Sui tronchi adagiati sul terreno si sviluppano funghi e muschio, mentre sotto al tronco il terreno si mantiene fresco. È importante quindi conservare i vecchi alberi morti e non asportarli.

La caratteristica che rende unico questo biotopo è la presenza di farnie (Quercus robur) che crescono spontaneamente, tra le quali un maestoso esemplare con rami robusti e chioma massiccia, che presenta una circonferenza di 148 cm. a 150 cm. dalla base. Le querce, ormai praticamente scomparse dal territorio in esame, caratterizzavano le grandi foreste della Pianura Padana, insieme ad altre latifoglie. La varietà di piante erbacee ed arboree presenti, in particolare le farnie, gli imponenti esemplari di pioppo bianco (Populus alba), pioppo nero (Populus nigra) e l’ontano nero (Alnus glutinosa), rendono questo luogo una importante riserva biogenetica.

 

Ringraziamenti

Si ringraziano: Sonia Angelone, Donatella Berti, Paola Borella, Alfredo Boscolo, Francesco Coccato, Roberto Donolato, Claudio Giraldo, Harald Hansen, Corrado Lazzari, Vittorino Marin, Elena Marzona, Nicola Novarini, Daniele Padovan, Saulo Pagliaro, Maurizio Savioli e tutti gli amici del Circolo della Legambiente di Piove di Sacco e del Gruppo Archeologico Mino Meduaco per le informazioni fornitemi e gli utili consigli. Sono inoltre grato a Massimo Malupuni, proprietario di “Brenta Secca” e ad Angelo Carraro, uno dei proprietari di “Cava Carraro”.

Bibliografia

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