Sulle tracce dei vini benedettini

di Paolo Zatta

Il vino è come la vita per gli uomini,
purché tu lo beva con misura.
Che vita è quella di chi non ha vino?
Questo fu creato per la gioia degli uomini
Amarezza dell’anima è il vino bevuto in quantità?

(Siracide 32, 27)

Il vino, si sa, è prodotto da millenni (Antonaros, 2000); ce lo ricordano scritti antichissimi dal ciclo epico del re sumero Gilgamesh alla nota ubriacatura di Noè descritta nella Bibbia (Genesi 9, 20). Pare comunque che il testo più antico che parli del vino in Italia sia la descrizione di Omero nell’ Odissea, quando Ulisse ubriaca il ciclope.

Uva

Il vino è fin dai tempi antichi simbolo di  liberazione sia dalle leggi che possono modificare il comportamento sia da uno status di prigionia metaforica: un simbolo talmente forte che gli antichi greci lo divinizzarono nella figura del dio Dioniso rappresentato metà uomo e metà bestia, e non a caso!
Momento fondamentale d’incontro il vino era centrale nel simposio greco (parola che deriva da sun-pino, ossia bere assieme) che fu pure il titolo di un’opera di Platone , nella quale si legge:

Queste parole furono ascoltate e all’umanità si decise che non si sarebbe passata la serata ad ubriacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto quanto si sentiva (Platone (427-347 a.C., Simposio).

I primi grandi produttori di vino in Italia furono gli Etruschi (V-VI secolo a.C.). La deliziosa bevanda fu sempre molto gradita e richiesta tanto da incentivarne la produzione fino a degli eccessi, tanto che già nel 121 a.C. sotto il console Lucio Opimio impose una regolamentazione per la eccessiva produzione della coltivazione dell’uva.

Il vino è stato da sempre grande ispiratore degli artisti. Scriveva il grande poeta persiano Omar Khayyan (1048 a.C.?):

Se bevi vino, bevilo insieme ai sapienti
o insieme a una bella fanciulla dal volto di tulipano.
Non prendere molto,
né di frequente, né in pubblico.
Ma poco, ogni tanto e in segreto

Ogni grande civiltà del Mediterraneo ha usato il vino nei vari linguaggi civili a partire dai convivi per non parlare poi dei riti sacri. Se è vero che l’Islam ha proibito (khamr) il bere vino, pare tuttavia che questa norma sia stata introdotta da Maometto al fine di evitare i frequenti eccessi del bere; sta di fatto che il pensiero sufi (una corrente della mistica islamica) di Ibn Arabi, definì il vino “simbolo della scienza degli stati spirituali”.

La vite e il vino si diffondono con il cristianesimo come elementi legati alle allegorie e ai  simboli della liturgia, e dell’essere cristiani. E fu il Cristo a usare spesso l’albero della vite come metafora: “Io sono la vite e voi i tralci”.
La viticoltura dagli albori del cristianesimo viene quindi rafforzata dalla pratica transustanziale della S.Messa dove il vino diventa il sangue del Cristo.

Padova e il suo territorio subirono un grave tracollo nel 601 d.C. per mano dei Longobardi, ma furono proprio i Longobardi che con l’editto di Rotari del 643 dedicarono un ampio spazio alla tutela della vite e delle colture arboree. Tuttavia è grazie al monachesimo che si propaga una rinascita della coltura della vite e dell’ agricoltura in tutta Europa, ed il ruolo fondamentale della viticoltura diventa importante non solo come fonte di reddito, ma anche come ragione spirituale assieme alla coltivazione del frumento per il pane altro elemento fondamentale nella liturgia cristiana (Giorato, 2000).

Alla coltura delle vite dei monaci seguiranno presto la prativa vitivinicola dei signori feudali sia come esigenza di consumo, sia come prestigio e valore simbolico.

 Giovanni BrunacciLo storico Giovanni Brunacci (Monselice 1711-1772) fa risalire al IX-X secolo le prime testimonianze della viticoltura nei colli euganei, notizia che viene successivamente ripresa da Andrea Gloria (1885).

I monaci benedettini arrivarono a Padova tra l’VIII e il IX secolo per assumere il ruolo loro affidato della custodia delle reliquie dei santi patavini Prosdocimo, Fidenzio, Massimo e Giustina. Dopo un paio di secoli la comunità di san Benedetto crebbe in modo considerevole tale da permettere la realizzazione di grandi opere di bonifica (dal latino bonum facere) per estendere la superficie da dedicare all’agricoltura in una nuova economia che vide risorgere anche la Saccisica dopo anni, forse secoli, di stenti.

Tra il XV-XVI secolo sorsero in Saccisica le grandi corti, le fattorie, i luoghi di culto e in seguito le opere di grande valore architettonico come si può ancora osservare in quel che rimane della corte di Correzzola e della recentemente restaurata Corte di Legnaro. Correzzola è un piccolo borgo del Padovano il cui nome deriva dal latino corrigiun ossia lingua di terra, (Olivieri, 1961) dove venne appunto edificato il grande complesso agro-monastico che comprendeva un imponente insieme di edifici con magazzini per le granaglie, scuderie per oltre un centinaio di cavalli e tutto quello che necessitava all’organizzazione e al contenimento di un’ imponente produzione agraria (Bandelloni e Zecchin, 1978; Saccisica, 1981). Fra i vari prodotti agrari delle terre dei monaci, oltre al lino e a numerosi cereali (sorgo, avena, miglio, frumento e molto tardivamente tra la fine del XVI e i primi del XVII secolo, il granturco), c’era l’ allevamento della vite e la produzione di vino, come testimoniano la presenza di grandi  tinazzerie e caneve.

Il consumo del vino non fu incoraggiato dalla regola di san Benedetto “.. coloro ai quali Dio dona la capacità di astenersene, sappiano che riceveranno una ricompensa particolare …giacchè il vino fa traviare anche i saggi1. Tuttavia il consumo del vino veniva permesso come supplemento alimentare specie nel duro lavoro dei campi e come supporto terapeutico per i malati e i deboli: “..tenendo presente la necessità dei deboli, riteniamo che a ciascuno sia sufficiente un’emina2 di vino al giorno…ma se le esigenze locali, il lavoro o il caldo dell’estate ne richiedesse una quantità maggiore, sia in potere del superiore concederla, badando sempre di evitare a tutti la nausea o l’ubriacatezza”.

La vita dei campi è sempre stata molto dura, e il vinello (la gaspia dei nostri contadini di qualche decennio fa, ottenuta dalla sciacquatura delle vinacce dopo la produzione del vino) era consumato come dissetante nel lavoro in campagna. I monaci, come si diceva poc’anzi, facevano qualche eccezione nell’uso del vino, concedendo ai braccianti il vino normale, solo per i lavori più pesanti.

Il monastero di santa Giustina nel 1540 dichiarava una produzione di vino pari a 294 mastelli, corrispondenti a 210 ettolitri (Bandelloni e Zecchin, 1978) di cui 179 mastelli provenivano dall’intera corte di Correzzola5: una quantità considerevole se pensiamo alla qualità del terreno e alle tecnologie del tempo.

In un contratto del 17203 si legge, come segue che veniva fatto obbligo “a contribuire la giusta metà dell’uva colla decima…”; inoltre si legge “Sia obbligato di contribuire mosto di uva Corbina, e Pignola Mastelli4  num. 60..”  con dettagli sulla tecnica di lavorazione “ ..follato (pigiato) coll’ordine pratticato dai lavoratori della Corte (di Correzzola) medesima”. La produzione del vino era dunque soggetta a norme giustamente severe, ma soprattutto di ordine pratico; esistevano ad esempio precise regole dove collocare le cantine: esse dovevano essere situate distanti dalle latrine, dalle cisterne d’acqua, dai forni, dalle acque salate, dalle stalle, dai letamai e in genere da luoghi puzzolenti che potevano corrompere la qualità del vino. Inoltre, esistevano norme utili al posizionamento delle cantine e dei luoghi dove l’uva veniva messa a fermentare “dove bollono i vini nei tinazzi” lontani da luoghi dove “pongono diverse erbe e fiori odoriferi, acciochè con  l’esalare l’odor loro soave e dilettevole entri nei vini ……” (Africo Clemente, 1696)

I possedimenti benedettini continuarono a prosperare con alterne vicende, e con il non sempre facile rapporto con la Serenissima gelosa dei proventi dei monaci, fino all’esproprio napoleonico del 1807 a favore di Francesco Melzi d’Eryl, lodigiano e gradito a Napoleone per i servigi resigli. I campi padovani dati al Melzi ammontavano a 12.6495.

Anticamente la vite veniva “maritata” all’acero campestre (in dialetto oppio) oppure  all’onaro (ontano), al noce o al pioppo che fornivano anche materiale per la lavorazione di prodotti vari comprese le sgalmare, le calzature di legno che tanto costarono al protagonista dell’ “Albero degli zoccoli” di E.Olmi.

Già i Romani osservarono che il vino migliore si produceva in collina e Virgilio in particolare sottolineava che Bacchus amat collis . Il vino quindi non fu mai tutto uguale; c’era quello di monte e quello di pianura. Nel ‘600 il vino di monte si vendeva a 6 lire al mastello, rispetto a quello di pianura che valeva dalla metà in giù (Baldan, 1988). Il vino è sempre stato uno dei prodotti principali della campagna, e fino a non molto tempo fa si faceva cominciando col gettare alla rinfusa vari tipi d’uva nel mezoto per la pigiatura, lasciando poi fermentare il mosto all’aperto in tini o tinazzi a seconda del volume, per tempi molto lunghi e a temperature non controllate, oggi impensabili. Con questo procedimento si estraevano quantità improponibili di tannini grazie ai quali risultava un vino garbo. Dopo la fermentazione, formatosi il cappello de le vinazze, si operava il travaso del vin colà che era soggetto al canone. Quando ancora non venivano usati i torchi, dopo il travaso, le vinacce venivano  annacquate per produrre il cosiddetto “vinello”, prodotto talvolta con un’ulteriore fermentazione aggiungendo dell’uva. Il vinello o vin piccolo si consumava fino a non moltissimi anni fa dalle nostre parti come bevanda rinfrescante durante i raccolti estivi. Con l’introduzione dell’uso del torchio le graspe (vinacce) venivano portate in parte al bruso (distilleria) e in parte trattenute dal contadino per farsi la grappa in casa. Le vinacce non utilizzate per la distillazione venivano rimesse in botte con dell’acqua ad ottenere dopo pochi giorni la gaspìa, ossia dell’acqua un po’ colorata e con un vago ricordo di vino. Con l’introduzione dell’uso del torchio il vin piccolo fu sostituito dal vin forzà  prodotto con l’uva non giunta a maturazione o norbia che talvolta odorava non proprio gradevolmente per la vicinanza di terreno ricco di letame. Si otteneva così un vino acidulo che d’estate si mescolava con tre parti d’acqua per avere una bevanda dissetante. Una variante di questo vino acidulo era il fortìn, ottenuto mettendo il vino acidulo al sole per una parziale rifermentazione; aggiungendo invece dello zucchero si otteneva una bevanda consumata con la colazione del mattino. Se l’ acidità diventava davvero molto intensa si otteneva l’ agresta, un vero aceto di vino, già noto ai Romani (agrestum) che lo usavano in varie salse.

Tra le viti allevate a pergola, era coltivato un piccolo pascolo detto bustìa che veniva sfalciato a maggio (maggengo) o in piena estate (arsiva).

Per continuare a parlare di vino ai nostri giorni, chi oggi ha preso in mano con coraggio il testimone è la cantina sociale di Piove, fondata nel 1959, e che oggi conta 431 soci che conferiscono circa 25-30.000 q./anno per la vinificazione. L’attuale cantina sociale di Piove di Sacco da qualche tempo è confluita nelle cantine Sansovino di Conselve.

Corti Benedettine del PadovanoFra le varie tipologie di vino credo sia importante sottolineare la D.O.C. (Denominazione di origine controllata) “Corti Benedettine del Padovano” che vuole in qualche modo riallacciarsi alla produzione benedettina riportando sulle bottiglie antiche mappe delle proprietà terriere dei monaci. Il nome “Corti Benedettine del Padovano”, pur non identificando un preciso luogo geografico, vuole comunque richiamare un retaggio storico, che come si è detto è legato all’amministrazione di molte delle terre della Saccisica da parte dei benedettini del Monastero di Santa Giustina in Padova con le corti di Legnaro, Correzzola, Concadalbero e in molti altri centri della bassa padovana.

E’ noto ai più che per migliorare la qualità del vino servono investimenti e ricerca sia in campagna che in cantina oltre alla produzione di un ridotto numero di grappoli per pianta di vite. Solo per dare qualche idea, per ogni ettaro di uva raccolta negli Chateaux francesi del bordolese si producono circa 40 hl di vino rosso e 25 hl di vino bianco. In questo caso però siamo al vertice della qualità mondiale. La quantità d’uva conferita nella cantine del Conselvano è stata ridotta, rispetto agli anni ’80 mediante gli espianti dei vitigni, di circa il 30%. E’ la giusta strada da seguire.

La maggior parte dell’uva conferita alla cantina sociale di Piove è a bacca rossa dai vitigni merlot, cabernet e rabosa, mentre il rimanente 20% è a bacca bianca come ad esempio il  pinot bianco e un po’ di moscata proveniente sia dai comuni della Saccisica che da alcuni comuni del veneziano quali Campolongo maggiore, Campagna Lupia e Chioggia con una superficie vitata complessiva intorno ai 145 ettari.
L’attività economica della sola Cantina Sociale di Piove rappresenta un volume d’affari annuo intorno al 1.400.000 €.

Bagnoli di FriularoFra i vini di altissima qualità del territorio va ricordato, e come non si potrebbe, il friularo del Dominio di Bagnoli, ottenuto dalla vinificazione di un vitigno raboso.
Già in epoca romana si vinificava nella zona di Bagnoli; più tardi, intorno al X secolo, i monaci benedettini e nel 1100 i frati di S. Spirito, diedero nuovo vigore alla viticoltura costruendo ampie cantine con capacità di oltre 10.000 hl.
Nel XVII secolo i Conti Widmann acquistarono le proprietà del clero e resero famoso il vin friularo di Bagnoli sia presso la Serenissima Repubblica di Venezia, di cui erano fornitori, che all’estero. La Serenissima considerò il friularo un prodotto di grande pregio a cui si aggiungeva il vantaggio di avere una particolare resistenza  ai lungi viaggi per mare per cui veniva considerato un ottimo vin de viajo.
Il vino friularo fu decantato da artisti e poeti come il Ruzante e Lodovico Pastò, veneziano di nascita, che finì i suoi giorni proprio a Bagnoli, autore del famoso ditirambo6El vin friularo di Bagnoli”:

Ma fra i Vini el più stimabile,
El più bon, el più perfeto
Xe sto caro Vin amabile,
Sto Friularo benedeto…

Vegna in qua bozze e bozzoni,
ingistare e botiglioni,
canevete e bariloti,
zuche, fiaschi, squele e goti;
vegna pur sechi e mastei,
vegna bote e caratei,
damigiane e madalene
de Friularo tute piene,
e bevemo,
e trinchemo,
tracanemo
sto bel sangue vegetabile,
sto prezioso oro potabile.

 Secondo studi ampelografici il raboso deriva da una varietà di uva selvatica (Vitis sylvestris)  di origine trevigiana diffusasi nel Friuli (da cui secondo alcuni è possibile derivi il nome) per passare in Istria  e successivamente nella zona del Piave. La vite friulara produce un grappolo grande, a forma cilindrica-piramidale, un po’ più allungato del raboso del Piave, con buccia spessa color blu-nero. Ha una maturazione fisiologica tardiva ed è piuttosto resistente al freddo e alle malattie.

L’uva friulara ha un’ interessante acidità (tartarica da 8 a 10 g/L e malica tra i 4 e i 6 g/L) caratteristica del vino che consente una particolare fruttuosità. La buccia è tenace, ricca di antociani, molto colorata e ricca di tannini.

Il termine “friularo”, secondo alcuni studiosi, pare abbia poco a che vedere col Friuli, bensì si crede possa derivare da frio (freddo) visto che oltre a maturare tardivamente non teme troppo il freddo. Questo vino ha un’elevata concentrazione di “resveratrolo”, un antiossidante presente nella buccia soprattutto dei vini rossi e in particolare del friularo, utile a combattere i radicali liberi che concorrono all’invecchiamento e alle malattie cardiovascolari. La buccia dell’uva è molto colorata per un’alta presenza di tannini che trasferiscono al vino, con la vinificazione “in rosso”, ossia in presenza delle bucce, sentori di ciliegia selvatica e violetta; mentre nel rosato il sentore è più delicato, di mela verde; se infine è vinificato “in bianco” (senza bucce) il vino ha gradevoli sentori di albicocca.

Una chicca del “Dominio” è rappresentata dal friularo passito, prodotto da uve raccolte dopo l’estate di san Martino. Le uve vengono attentamente selezionate, appassite in ambienti aerati (fruttai) e attaccate naturalmente da una muffa nobile (Botrytis cinerea) che toglie una buona percentuale d’acqua ai chicchi arricchendoli in zuccheri e altre sostanze aromatiche che danno un valore aggiunto al prodotto finale.

La spremitura dell’uva appassita avviene intorno al periodo della settimana santa; segue quindi una prima fermentazione  detta “tumultuosa” o “bollitura del mosto” in botticelle di rovere, a cui segue una seconda fermentazione naturale molto lenta, per l’elevata concentrazione di zuccheri, che può durare anche un anno.

Nel 17747 quando per la prima volta in un documento si fa riferimento al vino friularo si riportano anche altri vitigni oggi in via di estinzione che meriterebbero tuttavia, per l’importanza nella storia dell’ampelografia del territorio, una particolare attenzione. Questi vitigni sono il Zovian, il Pignolo, il Corbin, il Gregio, il Vintipergo, il Marzemin di mozartiana memoria nel don Giovanni, solo per citare i principali. Il che, contrariamente a quanto alcuni male informati pensano, qui il vino importante, lo si faceva già nei secoli scorsi e si può continuare a farlo con passione, professionalità e investimenti adeguati. Ed è proprio grazie alle caratteristiche del terreno sedimentario-alluvionale e alle alte escursioni termiche che alcuni vitigni trovano qui il proprio habitat ideale, a partire dal friularo.

Fra gli illustri cantori del friularo non va dimenticato il grande commediografo veneziano Carlo Goldoni delle Mémoires (1756):

Per bever el Bon Vin in quei confini
I se parte per sin da le Città;
Sterzi, sedie, cavalli; e che la vaga!
A Bagnoli se gode, e no se paga.

 Goldoni fu ospite dei conti Widmann, nobili veneziani di origine tedesca, come ricorda il grande commediografo nelle sue Memoires:

L’anno passà son sta a Bagnoli un mese.
A no lodar bisognaria esser muti
Le gran Tele, i gran Fasti, e le gra spese.

Ma quel che più de tuto fa stupor,
Del Paron de la casa el gran buon cuor

Ed è proprio nel teatro della villa che il più noto dei commediografi del ‘700 italiano si dilettava a recitare assieme ai proprietari nei suoi festosi soggiorni.

Attualmente la tenuta del Dominio di Bagnoli è di proprietà della famiglia Borletti che con grande passione e maestria sta dando il meglio a un vino che sicuramente in futuro ci riserverà delle piacevoli sorprese.

Note

1 La Regola di san Benedetto, XL 4 e 7, La Regola, Edizioni San Paolo, 2002, Cinisello Balsamo..

2Emina = 271 ml

3A.S.P., S.Giustina, B.59, vol.XX, n.101.

4Un mastello veneziano di vino corrisponde a 75 litri, mentre il mastello padovano è di 71,2755 litri.

5Un campo padovano corrisponde a 3862,56 mq

6Ditirambo, letteralmente era un canto corale della lirica greca legato al culto di Dioniso.

71774 “Raccolta de uve de anno 1774, Bagnoli, di ragion della Eccel.ma Fraterna Widman”. Archivio E. Scapin, Bagnoli.

BIBLIOGRAFIA

Africo Clemente M. “Padovano” (1696) Della agricoltura, accomodata all’uso dei nostri tempi e al servizio di ogni paese, P.G. Molino, Treviso.
Antonaros A. (2000) La grande storia del vino, Pendragon, Bologna.
Baldan A. (1988) La civiltà rurale veneta, Francisci editore, Abano terme, Padova.
Bandelloni E., Zecchin F. (1978) I Benedettini di S. Giustina nel Basso Padovano: bonifiche, agricoltura e architettura rurale, Garangola, Padova.
Giorato S. (2000) Pane, ciliegie e vino bianco, Biblos.
Gloria A. (1885) Della agricoltura nel padovano, Leggi e Cenni storici, in Scritti raccolti e pubblicati dalla Società d’incoraggiamento per la Provincia di Padova, II, parte I, Padova.
Olivieri D. (1961) Toponomastica veneta, Istituto per la collaborazione culturale, Roma.
Saccisica (1981) AA. VV., a cura del gruppo di ricerca di Correzzola, edito dalla Cassa Rurale ed Artigiana di Piove di Sacco.