di Maria Vittoria Tescione
Il corso, e le volte di questi fiumi sono state così graziosamente disposte dalla benigna natura in questo territorio felice, che non vi è castello, terra, villa, luogo, che sia più di cinque miglia dall’acqua lontano, il che è di comodità meravigliosa per condurre le biade, i vini, et ogni sorte di vettovaglia alla città.
Angelo Portenari (1623) Della felicità di Padova
Il territorio della Saccisica, esaltato e descritto da diversi storici del passato per la sua fertilità, presentava una notevole varietà di ambienti caratterizzati da diverse produzioni. Da antichi documenti si rileva che vi erano, accanto ad aree paludose, terreni coltivati che offrivano varie produzioni agricole e ampie aree vitate. Nel Cinquecento lo storico Bernardino Scardeone nel suo “De antiquitate urbis Patavii” (1560) affermava che il territorio di Piove di Sacco abbondava di frumento e lino e che nel “ villaggio di Polverara” si allevavano galline di notevole grandezza. L’abate Giuseppe Gennari negli “Annali di Padova”, testo pubblicato postumo nel 1804, rilevava: “…Da una carta del 1005 apprendiamo che gli uomini abitanti della corte di Sacco erano un popolo industrioso e mercanteggiavano per terra e per mare”1.
Il Muratori, riferendosi al Trecento (1317), scriveva negli “Annali d’Italia” che “il Pievato era il territorio più abbondante e pingue del padovano”. Angelo Portenari rilevava in “Della felicità di Padova” (1623) che Piove di Sacco era “abbondante di frumento e lino”2, e da un manoscritto del Seicento, “Descrittione di Padova e del suo territorio” si apprende che “la villa di Piove di Sacco” era rinomata “per l’abbondanza dei grani”. Piove veniva definita “della città granaro”. Nello stesso testo si diceva che il suo stemma era “san Martino a cavallo in campo bianco con un’ala rossa per banda di sopra”3.
Nell’Ottocento divenne – come rilevano Giuseppe Marcolin e Dante Libertini- uno scudo con tre melagrane, simbolo della fertilità del territorio4. Secondo lo storico Pietro Pinton lo stemma delle tre melagrane “fu abusivamente introdotto sotto il dominio austriaco (1798-1805), se non già sotto i brevi governi francesi”. Il Pinton precisava che sarebbe stato tratto da un antico codice del XVI secolo, ma potrebbe anche essere stato lo stemma nel 1546-1547 di un podestà di Piove. Inoltre, dopo essersi soffermato sul fatto che negli ultimi decenni del Duecento Padova mandava annualmente al governo di Piove di Sacco due podestà (come a Monselice e a Cittadella), mentre tutti gli altri centri ne avevano uno solo, scriveva:“Piove di Sacco non meno di Monselice, di gran lunga più di Este e d’ogni altra città minore della provincia padovana,fioriva allora per agricoltura e commerci….”5
Le coltivazioni di frumento e cereali
Antichi documenti attestano la produzione di frumento e di diversi altri cereali nella Saccisica fin dai tempi più lontani. E’ necessario rilevare innanzi tutto che una notevole importanza nel rendere produttive queste zone l’ebbero sicuramente i benedettini, che bonificarono vaste aree e crearono centri agricoli la cui importanza aumentò nel corso dei secoli. Nel 1123 il Vescovo di Padova Ulderico aveva donato all’abate di Santa Giustina la palude e i terreni circostanti la località detta Isola – l’unica allora abitata – che perciò fu detta Isola dell’Abbà. Nello stesso anno Giuditta di Sanbonifacio vendette all’abate il castello di Concadalbero con vasti poderi confinanti, mentre nel giugno del 1129, i monaci acquistarono da Guido de’ Crescenzi diversi terreni nella zona di Concadalbero. Iniziarono così le grandi bonifiche culminate nei secoli XVI e XVII con la strutturazione delle gastaldie (Correzzola, Villa del Bosco, Cona, Concadalbero, Brenta dell’Abbà – cosiddetta perché vi risiedeva un Abate -, e Civé). Furono costruite poi case coloniche alle quali furono dati nomi di Santi.
A Correzzola i benedettini eressero grandi edifici formanti la “Corte dominicale”, con granai capaci di 4000 moggi di frumento, mentre alla fine del Settecento (1794) venne eretto un granaio “capace di 600 moggi”. Nell’abbazia c’erano otto grandi cantine, di cui cinque principali in grado di contenere 300 e più vasi vinari, oltre 100 tini da 130 mastelli padovani ciascuno e botti da 80 mastelli. Furono realizzati porticati per distendere i raccolti, una scuderia per 100 cavalli, due corti ad uso di aie per battere il grano e seccarlo. Nei forni si producevano 15 moggi di pane al giorno perché due volte alla settimana i frati distribuivano pane e minestre a oltre 500 poveri6.
Da diversi documenti risulta che il frumento era il cereale più richiesto tra i conferimenti previsti nei contratti di livello. In un documento del 1154, relativo alla località di Ardere, il frumento era il cereale richiesto7, mentre nel 1209 a Corte di Sacco un livellario del monastero di San Zaccaria in Venezia otteneva che il suo contratto divenisse perpetuo al prezzo di una modifica vantaggiosa per il monastero: doveva conferire 3 staia di frumento e tre di fave invece di 2 staia di frumento, 2 di fave, 1 di sorgo e 1 di miglio8.
Le fave, legume molto in uso, avevano un ruolo importante nell’alimentazione dell’epoca: venivano pestate e ridotte in farina e con esse venivano preparate polente e minestre, tra cui una detta “fava menada”. Da altri documenti, riguardanti ad esempio affittuari del monastero di San Nicolò del Lido a Corte e a Piove, si apprende che diversi contratti tra il 1286 e il 1299 prevedevano pagamenti in cereali e non in danaro, più una certa quantità di pepe e di zafferano, mai richiesta nei livelli dei decenni precedenti9.
Da altri documenti si rileva, per quanto riguarda il denaro e le derrate dovuti dall’affittuario al locatore, che una delle voci principali era costituita da determinate quantità di frumento e di altri cereali. Nel 1305 per “ 21 campi e quarti due” in Arzere di Sacco per 5 anni il fitto annuo in derrate consisteva in “moggia 6, staia 6, quartieri 2 di frumento”10.
Nel 1543 “per campi 16 arati e vignati in Legnaro del Vescovo”, affittati per tre anni, il fitto annuo in prodotti agricoli comprendeva tra l’altro 40 staia di frumento e 4 di spelta (antenata del frumento Triticum spelta)11. Nel 1568 per nove campi in Arzerello, per tre anni, il fitto annuo in prodotti agricoli prevedeva tra l’altro 2 moggi e 9 staia di frumento e 15 libbre di “lino spolato”12. In diversi testi dell’Ottocento si rilevava che i cereali costituivano la produzione agricola principale del territorio di Piove e che erano, con l’allevamento del bestiame (bovini e suini ) e con il pollame, tra i prodotti che superavano i bisogni locali13. E nel 1881, in occasione dell’Esposizione Nazionale di Milano, il Comizio Agrario di Piove di Sacco presentava diverse varietà di frumento (frumento toso gentile, marzuolo, ecc.), di sorgoturco (nostrano, pignolo, cinquantino) e altri cereali (miglio, panico, sorgo nero e rosso) coltivati nella zona14.
L’importanza dei cereali veniva posta in rilievo in un testo del 1842, in cui si legge: “I cereali sono il prodotto principale dell’agricoltura sul tenere di Piove, e solo da qualche anno si pone molta diligenza alla prosperità dei gelsi…”15. E un esperto, presentando i risultati di una statistica su Padova e provincia affermava, “Il distretto di Piove produce forse il miglior frumento della Provincia, tanto per la bella qualità del grano quanto per la candidezza delle farine e per il sapore del pane…”. E precisava che frumento di prima qualità si reperiva in tutto il distretto di Piove in genere, ma anche in altri distretti e in altre località della provincia quali Bagnoli, Arre, Agna16.
Nella Saccisica era diffusa poi la coltura del miglio e il fatto è attestato tra l’altro da antichi documenti, nei quali si parla anche di panico (Panicum miliaceum L.), avena, sorgo. Nel 1209 ad esempio, a Corte di Sacco un livellario otteneva che il suo livello (contratto di locazione in uso specialmente tra il 1190 e il 1230) divenisse perpetuo a condizione di una modifica riguardante i conferimenti. Nel documento veniva citato tra i diversi prodotti il miglio17. Nel 1420 per 98 campi in Bovolenta per tre anni l’affitto annuo prevedeva tra l’altro 6 moggi di frumento, uno staio di miglio, sei staia di sorgo18.
Il miglio era importante nell’alimentazione di un tempo e a Venezia c’erano i magazzini del “megio”, che prima dell’avvento del mais era un cereale molto in uso. Il rilievo assunto dal miglio è attestato anche da Pietro Andrea Mattioli, noto medico e botanico del Cinquecento, che si soffermava sul fatto che i boscaioli e i carbonai della zona di Trento non vivevano d’altro che di polenta di farina di miglio con il latte. E rilevava che con il miglio si faceva anche un pane, che quando veniva fatto bene, come sapevano fare i fornai della Lombardia e specialmente di Verona, era buono purché mangiato caldo (raffreddandosi diventava duro e perdeva sapore)19.
Di pane di miglio si parla anche in una delle novelle della raccolta “Le piacevoli notti”, testo scritto tra il 1550 e il 1553 da Giovan Francesco Straparola. Un’allegra brigata di amici si diverte durante il carnevale dell’isola di Murano e i componenti raccontano diverse novelle, una delle quali è ambientata nel padovano. Marsilio Verzolese, cittadino padovano, è innamorato di Tia, moglie di Ceccato Rabboso di Piove di Sacco e originaria di Campolongo. Tia, che è una che parla chiaro, gli rinfaccia che i contadini lavorano per i ricchi, fanno il vino e i ricchi se lo bevono, mentre a loro restano solo “graspi” e acqua. E dice tra l’altro: “U magné pan de fromento e mi del pan de megio, de melega e de la polenta…”20. Il pan di frumento, considerato dagli esperti del passato – il migliore e il più sano – era quindi destinato ai ricchi, mentre i poveri dovevano accontentarsi di pani e polente di miglio e di altri cereali inferiori o anche di misture di cereali inferiori con aggiunta di farina di legumi. Tia si cibava di pane di miglio e di pane di sorgo mentre il granturco cominciava ad apparire proprio in quel periodo (la prima coltura risale probabilmente al 1554 a Villabona nel Polesine, mentre iniziò a essere usato a Venezia nel 1592). E’ documentata inoltre la produzione di legumi, fave in particolare, nella Saccisica dei tempi più antichi, mentre fonti letterarie del Cinquecento dicono di orti coltivati a insalata, ortaggi e aglio. I toponimi rimandano a determinate colture, come le ciliegie (Celeseo di S. Angelo di Piove), ed è documentata la presenza di alberi fruttiferi.
La coltura della vite
“Oh co bon, oh che ecelente, co squisito ch’è sto vin, ghe ne indormo ingenuamente, ghe ne indormo al marzemin, (n.d.a. non mi curo) al Breganze, al vin Friularo, el xe proprio un capo raro…”21. I versi recitati alla tavola di Andrea Erizzo a Pontelongo, parlano di un vino squisito, probabilmente di produzione locale. Vino e cereali, quali ricchezze del territorio della Saccisica e di determinate località, sono esaltati in versi anche in un poemetto del Settecento dedicato a Bovolenta. L’Autore è Domenico Carrari, che fu cassiere e segretario dell’Accademia dei Concordi di Bovolenta, una bella istituzione culturale il cui statuto reca la data del 29 giugno 1782. L’Accademia fu fondata, tra l’altro, dal medico Giuseppe Menegazzi, che scrisse un poemetto sul vino “Bacco in mare”. Nel poemetto del Carrari dedicato a Bovolenta (inserito tra gli scritti dell’Accademia nella sessione di luglio del 1786) si esaltano “i doni di Cerere e di Bacco”, i cereali, il vino e il commercio22.
La coltura della vite ha nella Saccisica tradizioni antiche ed il fatto è attestato da numerosi documenti. Ma si può forse ipotizzare anche che determinati toponimi rimandino a pratiche colturali in uso una volta. Per quanto riguarda ad esempio Polverara, la località della Saccisica rinomata per le famose galline, si potrebbero ipotizzare nuovi significati e derivazioni del toponimo. Alcuni esperti del passato affermavano che “polverare” si dice quando i contadini arano la terra due volte, e la terra diventa “polvere”. Ma notavano anche che “polverare” era inteso da Plinio nel senso di cospargere di polvere o cenere le radici della vite e le uve stesse perché così si credeva di difendere la pianta e l’uva dalla nebbia, che le uve maturassero meglio e le viti crescessero e fossero più protette. Forse per questo nel Cinquecento c’era chi affermava, sulla base di antiche conoscenze: “I migliori vini si fanno se sopra le radici della vite si sparge cenere, perché la vite è per natura umida e la cenere toglie l’umidità”23.
Nella zona di Legnaro sorgeva una vasta zona definita negli antichi documenti “memora” o meglio “nemora”. Il termine, poiché non si parla di “silva”, indicava forse un bosco per far legna, ma potrebbe anche rimandare poeticamente a una distesa folta di alberi, in particolare di vigne. Antiche sono nella Saccisica le citazioni di terreni riservati alla coltura della vite e di aree vitate. Di vasti terreni vitati anche in zone circondate da paludi si parlava già in un documento risalente all’anno 829: il testamento di un doge della famiglia Partecipazi o Parteciaci, Giustiniano Partecipazio. Il doge, come risulta dal testamento, possedeva tanti terreni con case, boschi, pascoli, frutteti, zone destinate alla caccia e alla pesca in diversi luoghi. Tra i suoi beni verso le lagune c’erano vigne, prati, pascoli e bestiame (buoi e porci, cavalli)24.
Da un documento del 12 settembre 895, un contratto tra Austreberto, abate di S.Zeno di Verona e Leudiberto figlio di Leone, l’abate concedeva la terza parte di un podere situato “in Campolongo della Saccisica” con casa, orto, terre arate, vigne, prati e pascoli. Fu stabilito che il mezzadro tenesse il fondo per 29 anni, e si impegnasse a coltivarlo, migliorarlo e a piantarvi nuove viti. Doveva inoltre dividere a metà con il monastero il vino ottenuto, spremuto con torchio. Dallo stesso documento si rileva l’impegno nella coltura delle viti, dato che il colono era tenuto a piantare i magliuoli, a vangare e smuovere la terra, a tagliare le piccole viti per tre anni25. Un altro documento del 939 riferisce che la famiglia dogale dei Partecipazi si impegnava “a dare ai monaci di certi monasteri parte del vino eccellente, spremuto a torchio, che ritraeva dai suoi possessi e dalle ortaglie di Fogolana”26.
Documenti riguardanti contratti (livelli) parlano di terreni vitati e alcune delle più antiche citazioni di vigne in territorio padovano si riferiscono a località della Saccisica. Si pensi ad esempio a due documenti, uno dell’anno 894 e l’altro dell’anno 897 concernenti beni del monastero di S.Zeno di Verona a Campolongo di Sacco27.
Si segnalano infine diversi documenti riguardanti terreni nella zona di Fogolana (il nome indicava anche due villaggi situati in prossimità delle lagune, verso Chioggia) e un grande vigneto, detto “muradlia” nell’isola di Fogolana28. Questo vigneto, che era forse cinto da alte mura, si trovava tra canneti e terreni coperti dalle acque. Altri documenti parlano dell’esistenza di terreni vitati in varie località. In un atto di donazione del 1008 Alderado del fu Domenico donava ai sacerdoti di S.Martino di Piove due pezzi di terra, uno a Corte e l’altro con vite e cortile sempre nella Saccisica, in località detta “Argere”29.
Di terreni coltivati a vigneto, di prati e pascoli, luoghi di pesca e caccia e di terre poste nella località di Arzere diceva un atto di vendita del 9 febbraio 107730. Di vite e vino si parlava in un altro interessante documento del 1130 riguardante un terreno delle monache padovane di San Pietro, che nel 1084 avevano ricevuto dal vescovo di Padova Milone molti beni, tra cui terre ad Arzergrande. Nel 1130 Richilda, badessa di S. Pietro stabiliva che l’affittuario di un terreno in parte vitato e in parte “garbo” (senza viti), situato in Arzere di Sacco, pagasse un terzo del vino delle viti esistenti, che piantasse altre viti nel terreno restante per fornire in seguito un terzo del prodotto (dopo cinque anni). Si prevedeva inoltre che portasse il vino al monastero e desse il “pasto”(alloggio e vitto) agli incaricati della vendemmia31.
Nei secoli successivi documenti relativi a diverse località citano mastelli di vino tra i prodotti agricoli dovuti per il fitto annuo dei terreni. Ad esempio nel 1420 per l’affitto annuo di 98 campi a Bovolenta l’affittuario doveva conferire anche 15 mastelli di vino; nel 1543 a Legnaro del Vescovo tra i prodotti figuravano tra l’altro 15 mastelli di vino e nel 1568 ad Arzerello, tra i diversi prodotti, c’erano 4 mastelli di vino32. Una ulteriore riprova della lunga tradizione della coltura della vite nel padovano e nella Saccisica potrebbe essere fornita anche da determinati vini prodotti nella zona nei primi decenni del Novecento. Tra essi si segnalavano vini di antica tradizione, come il “corbinello”, il “friularo” e il “pataresco”, citati tra i vini speciali in un Annuario vinicolo del 1920. Il “corbinello” si ricava dalla varietà d’uva detta “corbina” o “corbinella”, che si conserva fresca a lungo ed era forse detta così per il colore scuro (il termine corbina designava anche una varietà di ciliegie). C’era chi ipotizzava si trattasse delle antiche uve “corvare o corvarole” e chi credeva che la “corbina” corrispondesse all’antica “eugenia” citata dal Columella (I secolo d.C.).
Nei dintorni di Bovolenta si coltivava anche la “rossetta”, che dava un vino di ottima qualità. Dall’Annuario vinicolo del 1920 risulta ad esempio che a Brugine erano stati prodotti 8300 hl. di vino e che il “corbinello” era tra i vini speciali; a Legnaro 6400 hl, a Piove di Sacco 6700 hl, (tra i vini speciali il “corbinello”, il friularo e il pataresco), a Polverara 4300 hl, a Pontelongo 1400 hl, a Bovolenta 4400 hl, a Codevigo da 5800 hl a 10mila hl. (il “corbinello” tra i vini speciali), a S.Angelo di Piove 5100 hl33.
Paludi, pascoli, caccia e pesca
Nel territorio della Saccisica, come indicano diversi toponimi, c’erano boschi, paludi, luoghi di pesca e caccia. Nel testamento del doge Partecipazio dell’anno 829, citato precedentemente, si parlava di “pascoli,selve,alberi fruttiferi e infruttiferi, pesche e cacce”. In un documento del 944, un atto di vendita di poderi a Cona e Fogolana, si citavano terreni aratori, selve, pesche, paludi34. Nei documenti si diceva a volte di campi circondati dalle paludi, di ampie aree paludose coperte dalle acque che si trovavano in molte località della Saccisica. C’erano vaste paludi nel territorio di Correzzola (termine che indicava forse una “lingua di terra”) dove grandi opere di bonifica furono attuate, come già detto in precedenza, dai benedettini.
Lavori di bonifica furono successivamente realizzati anche nella zona di Codevigo verso la metà del Cinquecento da Alvise Cornaro, che aveva qui una villa, in cui soggiornò spesso, suo ospite, il grande commediografo padovano Angelo Beolco detto Ruzante. Ruzante portò in scena la gente della campagna padovana della sua epoca. Tra il 1528 e il 1529 il commediografo si spostava – come rileva Paolo Sambin – dalla casa in città del Cornaro alla casa di campagna a Codevigo e acquistava per conto del Cornaro terreni a Piove. “Chissà quante altre volte il Ruzante avrà cavalcato il suo gagliardo cavallo nella Saccisica” prosegue Sambin “tra Padova e Codevigo e Piove”35. E nel 1532 Ruzante scrisse “La Piovana”, il cui titolo allude alla “fanciulla di Piove”. Di Nina, la ragazza protagonista, si dice nella commedia che è “di pavana, del Piovò”, del territorio nelle vicinanze di Piove di Sacco. Nina è ancora più precisa e afferma che il nome del paese dal quale fu portata via è Brenta. A tal proposito si rileva che già nel 1123 Giuditta di Sanbonifacio “vendette” ad Alberto, abate del monastero di S.Giustina, per 600 lire il castello detto Concadalbero con tutti i poderi confinanti, castello di Brenta e Correzzola36. Inoltre nella Piovana, che è ambientata in un borgo presso Chioggia, l’ambiente dei contadini assume un’importanza superiore a quello dei pescatori. E il sogno di diversi personaggi è di tornare in “pavana” mentre uno di loro, Bertevello, sogna di acquistare terre e poderi “in pavana” e stabilirvisi. Avrà una masseria, pollastrelli, buon formaggio dolce e salato.
Altra risorsa della Saccisica era – come si rileva dai documenti suddetti – la pesca in valle e nelle lagune. Angelo Portenari scriveva: “ Negli anni passati erano nel padovano molte paludi… Queste paludi avevano pesce in tanta copia , che sarebbe stata bastevole ad un regno, sicché il pesce si vendeva a vilissimo prezzo…”37. In determinate zone la pesca e la vendita del pesce costituivano attività di rilievo. Anche nell’Ottocento ad esempio, gli uomini di Campagnola – come rileva il Gloria – si dedicavano alla pesca e specialmente alla vendita del pesce a Padova e Vicenza38. I pescatori di Lova e Sant’Angelo di Piove avevano l’obbligo di fornire il pesce per la mensa del Vescovo quando si trovava nella Saccisica39. Infine alcuni toponimi, come via Schilla (il termine indica dei crostacei) a Codevigo costituiscono forse ulteriori conferme. Alcuni documenti indicano che nella zona esisteva una “fossa” in cui forse si pescavano le “schille” (gamberetti grigi tipici della laguna di Venezia40.
L’avicoltura: galline famose e…
La Saccisica può vantare oggi, come in passato, un’avicoltura di alto livello qualitativo, caratterizzata da razze pregiate, galline famose come quelle di Polverara, citate ed esaltate da storici, studiosi, gastronomi e letterati. Diversi antichi documenti attestano che l’avicoltura era praticata nella zona fin dai tempi più lontani. Da un contratto del 12 settembre 895 risulta che l’affittuario doveva fornire ogni anno al padrone quali “onoranze” polli e dieci uova41. Nei secoli XI e XII tra le “onoranze” dovute dall’affittuario al padrone c’erano diversi prodotti agricoli (il cosiddetto “amisere” era spesso costituito da una focaccia e da una spalla di porco, un prosciutto che poteva essere sostituito da polli). In un contratto del 1305 tra le “onoranze” dovute per il fitto annuo di “21 campi e quarti due in Arzere di Sacco” per 5 anni c’erano polli, un’oca, galline, una spalla di porco, una focaccia, un capretto e 25 uova. Nel 1420 a Bovolenta per l’affitto annuo di 98 campi le “onoranze” erano costituite da polli e galline42.
Da studi sui prodotti agricoli e l’agricoltura nel padovano attuati nell’Ottocento risulta che determinati prodotti erano in eccedenza rispetto ai bisogni locali; si notavano il bestiame bovino, i suini, il pollame, i cereali, il fieno43. E da statistiche sull’avicoltura e l’allevamento del bestiame nella provincia, attuate nel 1876 risulta che nel distretto di Piove di Sacco i polli erano 87.200 e che Piove era al primo posto per l’allevamento dei tacchini44. Notevole importanza assumeva anche l’allevamento del bestiame bovino e c’erano tra le diverse razze i “marinotti”, buoi piccoli dei distretti di Ariano, Chioggia e Loreo, mentre diffusa era la razza “pugliese”.
I prodotti dell’avicoltura, come la pregiata razza di galline di Polverara, che erano note e apprezzate anche in Francia, vengono valorizzati dalla cucina della Saccisica e sono materia prima di diverse ricette tradizionali. Tra le pietanze si segnala la “gallina di Polverara col pien”, farcita con un composto di lardo pestato, prezzemolo, spicchio d’aglio, fegatini di pollo a fettine, pangrattato, un uovo, sale, pepe, spezie e poi lessata con carote, sedano e cipolle. E poi “fedejni” in brodo di gallina o di cappone con i “figadini”, la gallina lessa con erbe di campo, il galletto di S.Pietro “panato” (passato in uovo sbattuto e poi in farina mista a pane grattugiato).
Tradizione e storia in cucina: rane e carne di cavallo
La gastronomia della Saccisica è ricca di pietanze tradizionali grazie anche alla varietà di produzioni. Tra i numerosi prodotti connessi alle caratteristiche del territorio si segnalavano le rane. Molti documenti attestano che nella zona esistevano vaste aree paludose e il fatto è stato tramandato anche da determinati toponimi quali Fossaragna (di Bovolenta), Palù (di Brugine). Nel Piovese e nella zona di Arzergrande in particolare le rane vengono proposte in diversi modi: fritte, in umido, in zuppe, in guazzetto e in saporiti risotti. Nel Cinquecento il noto commediografo padovano Ruzante, nella sua “Prima oratione” affermava che nel “pavan” si sapeva bene come prepararle e che “in gresta” si sarebbe potuto offrirle anche a un Papa. Bartolomeo Scappi , cuoco secreto di Papa Pio V, forniva la ricetta per “friggere e accomodare in agrestata le rane”, infarinate e fritte e poi condite con agresto (succo di uva acerba molto in uso un tempo). E aggiungeva che si potevano anche friggere con spicchi d’aglio e prezzemolo, pepe e sale. Lo Scappi rilevava inoltre che in Lombardia e nella zona di Bologna le rane venivano caricate a sacchi sui carri e consigliava di gustarle da maggio a ottobre perché sono più buone45. Considerate cibo “di magro” erano usate nelle cucine dei conventi e consumate dai contadini nelle zone ricche di acque, nelle quali erano più abbondanti. Tra le ricette tradizionali della Saccisica si segnala la zuppa di rane, preparata rosolando uno spicchio d’aglio (poi tolto) nell’olio, unendo le rane, acqua, prezzemolo tritato, sale e pepe, un po’ di burro. A cottura ultimata si disossano le rane, si aggiunge brodo sgrassato e si serve il tutto caldo su fette di pane.
Nella gastronomia della Saccisica si rileva l’uso della carne di cavallo, che si può gustare in diverse località tra cui Piove di Sacco, Legnaro, S.Angelo di Piove, Polverara. Con questa carne si preparano diverse pietanze tradizionali tra cui il brasato di puledro al vino, lo spezzatino di puledro alla cacciatora, la fesa di cavallo affumicata, la soppressa di cavallo e gli “sfilacci”: fibre di carne secca e affumicata, condite con olio. Da un’inchiesta attuata nel 1866 risulta che nella Saccisica e precisamente a Legnaro otto famiglie macellavano da tempo clandestinamente la carne equina e la consumavano spesso. La carne veniva anche distribuita ad altri e in parte veniva salata e affumicata per preparare salumi di carne suina ed equina. “Le otto famiglie hanno credito” si legge nella relazione “perché macellano soltanto bestie sane e ben nutrite, per cui le carni non hanno mai causato danni alla salute. E a Legnaro con carne equina si fanno anche salami all’aglio”46. Dall’inchiesta risulta tra l’altro che a Rovigo non si consumava carne di cavallo, che a Vicenza il consumo era limitato, come nelle altre città ai meno abbienti, che la consumavano lessa o stufata con lardo e cipolle, in salsicce mista a carne di maiale. Insaccati e salsicce di carne equina e suina si facevano a Verona mentre a Belluno si uccidevano annualmente circa 800 capi equini (tutti visionati dal veterinario),che venivano messi in vendita nei mercati tra novembre e dicembre. Nel bellunese la carne veniva cotta con burro o lardo,sulla brace, lessata nella minestra d’orzo o di fagioli. Nel 1872 a Padova per diffondere l’uso della carne di cavallo venne organizzato da un gruppo di medici nell’albergo Manin un banchetto tutto a base di questa carne. I medici gustarono diverse pietanze a base di carne di cavallo e di asino47.
Ma quali potrebbero essere le origini di questa usanza, del consumo della carne di cavallo nella Saccisica? Premesso che l’uso della carne di cavallo, secondo una tradizione potrebbe essere stato introdotto nel Veneto nel 449, quando i veronesi dopo la battaglia tra Teodorico e Odoacre avrebbero mangiato i cavalli morti nello scontro, si rileva che Plinio affermava che fu Mecenate ad istituire l’uso di mangiare i puledri, ma raramente, e che ai romani piaceva molto la carne dell’asinello di latte.
Si potrebbero poi avanzare delle ipotesi su un influsso da parte degli Ungari, che mangiavano la carne di cavallo anche cruda. Gli Ungari fecero due incursioni nel padovano, la prima nell’anno 899, la seconda nel 905, di cui rimase il ricordo in una via Ongaresca, citata in un documento del 1163. Il Gennari rilevò che “prima dell’899 vennero gli Avari o Ungri, crudeli e sudici… Loro cibo saporito era la carne cruda di cavallo e bevanda il latte agro e cervogia…”48.
Può essere infine utile notare che esiste un’altra fonte in cui si parla dell’uso della carne equina, che potrebbe aver influito sulla sua diffusione in quanto informazione sulla possibilità di mangiarla (per certi popoli era vietata) e di trarne buone vivande. Lo storico Enrico Caterino Davila, nato a Piove di Sacco nel 1576 da famiglia di origine spagnola, parlò nella sua “Storia delle guerre civili di Francia”, pubblicato per la prima volta a Venezia nel 1631, dell’assedio di Parigi del 1590. Il Davila definì “delicata vivanda” la carne di cavallo, di somaro e di mulo di cui i parigini si sfamavano. Anche i ricchi consumavano questa carne con pane e minestre di avena dopo aver finito il frumento.
Una cucina ricca e varia
La cucina della Saccisica è ricca e varia; basata su prodotti del territorio quali le carni della corte (gallina, tacchino, oca, anitra, faraona ecc.), gli ortaggi (radicchio e verze), il pesce di valle. E’ rustica, ma anche raffinata perché si notano ricette saporite delle campagne, ma anche, come avviene nella cucina padovana in genere, le più tradizionali ricette della gastronomia veneziana e veneta; pietanze che probabilmente caratterizzavano la cucina della “villeggiatura” delle ricche famiglie che costruirono ville nella zona.
Una conferma potrebbe giungere da una lettera di Gasparo Gozzi a Marianna Mastraca, datata Pontelongo 27 ottobre 1755. Il Gozzi era ospite nella villa del procuratore Marco Foscarini per il quale svolgeva lavori di segretariato, e racconta che in quei giorni faceva un gran freddo. Per questo si era rifugiato in cucina a parlare con il cuoco francese monsieur Pasqualino, che gli aveva fornito informazioni su diverse salse. E concludeva: “…se io mai avessi occasione di cucinare, vi farei assaggiare bocconcelli di Paradiso”48.
La cucina della Saccisica è ricca di primi piatti saporiti, tra i quali si segnalano le minestre di riso, i piatti di riso “all’onda” della cucina padovana e veneta, come “risi e bisi”, “risi e bruscandoli”, “risi e suca”, ma anche “risi e sepe” e diversi risotti con il pesce. E poi i “bigoli”, tradizionali spaghetti veneti, preparati in tanti modi (in salsa, “co l’anara”, ecc), la zuppa di verze, la pasta e fagioli. E a proposito di fagioli, da una relazione attuata in occasione di una Mostra collettiva dei prodotti agrari della provincia di Padova, presentati all’Esposizione Nazionale di Milano del 1881, si apprende che il Comizio Agrario di Piove aveva presentato tra i diversi prodotti molte varietà di fagioli, fagioli zebrati, fagioli nani carnicini, fagioli gnocchi screziati, fagioli sanguigni screziati, fagioli gialli sporchi, screziati giallo-neri, piccoli cinquantini49. A base di fagioli erano anche delle pietanze in uso nelle campagne come la polenta “infasoà”, una polenta piuttosto soda, preparata con i fagioli conditi con un soffritto di cipolla e pancetta e farina di mais. Con i fagioli si faceva un’altra pietanza rustica, il “brodo de cavaron”, che si preparava versando nei piatti, su fette di pane raffermo, fagioli cotti del brodo bollente e aggiungendo quindi olio di oliva, pepe e grana grattugiato.
Un’altra zuppa, il “broeton”, si faceva versando del brodo di pollo bollente sulle verze sbollentate, scolate e passate in un soffritto di cipolla e pancetta, lasciando cuocere per un’ora a fuoco lento, aggiungendo infine pepe e grana grattugiato e servendo quindi su fette di pane raffermo.
Un ruolo importante nell’alimentazione di un tempo aveva la polenta, che prima dell’avvento del mais, veniva preparata con il miglio e con farine di altri cereali inferiori. La polenta si abbinava ai cibi più diversi (formaggio e salame) e a tante altre pietanze. Si faceva anche una polentina condita con un po’ di burro e messa poi a cucchiaiate nel latte freddo con un po’ di zucchero e cannella. C’era infine la “panà”, preparata facendo bollire a fuoco lento nel brodo, con qualche cucchiaio d’olio e sale, del pane raffermo oppure grattugiato. A cottura ultimata si aggiungeva un filo d’olio e formaggio grattugiato. Era un “panbogìo”, pietanza molto in uso una volta a Venezia, in versione un po’ più densa. E la “panatella” era una delle pietanze consigliate da Alvise Cornaro nei “Discorsi intorno alla vita sobria”.
Tra le pietanze a base di prodotti della corte si segnalano primi piatti come “risi e tajadee in brodo de anara”, e secondi piatti quali “anara rosta col pien”, il coniglio in umido e la raffinata ricetta della faraona in salsa. E poi c’è “l’oca in onto”, conservata nel suo grasso, in cui si notano influssi della cucina ebraica. Il grasso d’oca infatti era usato dagli ebrei in sostituzione di quello di maiale, vietato per motivi religiosi. A tal proposito si ricorda che già nel Trecento degli ebrei avevano banchi di pegni a Piove di Sacco e che Piove fu la prima “villa” nel padovano che accolse israeliti. Piove di Sacco, inoltre, doveva diventare celebre per la stamperia ebraica, che nel 1475 stampò lo “Zur” in lingua ebraica. E poi ci sono le pietanze a base di carne di maiale (“porseo al latte”, fegato di maiale col ”raiseo”), i contorni a base di radicchio, di verze (“verze sofegae”). E tante frittate :“rognosa” con salame o con salame e verze, con i gamberetti di valle.
Dalle antiche focacce deriva forse la “fugassa mula”, composta da farina e strutto (una variante prevede l’aggiunta di fichi secchi e semi di finocchio), e tra i dolci si segnalano tra l’altro i “forti duri”. Preparati con melassa, farina, pepe erano a Venezia una tradizione della festa di san Martino e discendono dagli antichi biscotti speziati del genere dei pevarini e dal “pan specià”.
Tradizionale della vigilia di Natale, nelle campagne delle province di Padova e Rovigo, era la “smejassa”, una focaccia di farina di mais (prima dell’avvento del mais, come indica il nome, veniva preparata probabilmente con il miglio), una sorta di polenta dolce delle feste composta da farina gialla e bianca, a cui si aggiungeva melassa, fichi secchi, uva passa, semi di finocchio, qualche pezzo di zucca e brodo grasso di “musetto”. E poi ci sono i piatti delle fiere e delle sagre, momenti di festa delle comunità, tra le quali assumeva un particolare rilievo quella di san Martino a Piove di Sacco dell’ 11 novembre.
I mercati e i commerci, anche per via d’acqua, erano fiorenti nella zona. Da un tariffario dell’aprile 1697 per il traghetto di Piove, da Venezia a Corte e da Corte a Venezia, si stabilivano le cifre da pagare per il trasporto di molte derrate: frumento, farina, vino, olio, barili di “bisatti marinati”; ma anche per “ogni tassello di pollami”, per “ogni cassa de ovi ordinaria”, per “ogni tassello de colombini”, per ogni pezza di formaggio.
La fiera franca di san Martino a Piove di Sacco è una fiera antichissima, ultrasecolare, già citata da Marin Sanuto nel Quattrocento. Sanuto scriveva che Piove di Sacco era un “castello nobele e gentile” e aggiungeva: ”E’ il mercato de sabado. Sono do fiere, san Martin ch’è la pieve e la chiesa cathedral et san Nicollò …”50. In diversi testi del Settecento veniva citata tra le fiere dello Stato Veneto quella di Piove di Sacco, che iniziava il 10 novembre e durava quattro-cinque giorni. Piatti tradizionali del giorno di san Martino erano il baccalà, la trippa. Pietanze in uso erano anche i “folpi” lessi, i bovoletti, le “verze sofegà”, i “sùgoj” (tradizionale budino-marmellata d’uva). Un’altra pietanza di quel giorno era anche la “renga” (aringa) cotta sulla brace, pulita e diliscata, condita con olio e gustata con fette di polenta. Altra pietanza in uso nella Saccisica era costituita dalle “boiane”, ossia delle sardine secche, unte con olio, sale e pepe, cotte sulla brace per trenta minuti, servite calde con polenta e vino robusto. Il termine “bogiana” indicava un tempo un piccolo pesce d’acqua dolce, simile alle sardelle, ma un po’più grande. Giungevano a Venezia salate e affumicate come le aringhe dall’Albania turca. Si diceva che si pescassero qui in abbondanza nel fiume Bogiana (da cui il nome). Pare si trovassero anche nel lago di Garda.
NOTE E BIBLIOGRAFIA
1Gennari G. (1804) Annali della città di Padova, Bassano,p.6.
2Portenari A. (1623) Della felicità di Padova, Padova, p.62.
3.Cittadella (1605) Descrittione di Padova e del suo territorio, ms, p.270.
4Marcolin G., Libertini D. (1891) Storia popolare di Piove di Sacco con cenni sui paesi limitrofi,
Piove di Sacco, p.510.
5Pinton P. (1893) La città della Pieve dei Saccensi, Roma,p.12.
6Fontana G.J. (1957) Notizie storico – statistiche sulla villa antica di Correzzola nel territorio
padovano, Venezia,pp.7-10.
7CDP, 2/1, n.625,p.550.
8Archivio di Stato di Venezia, S.Zaccaria, B.17, 17 ottobre 1209.
9Archivio di Stato di Venezia, S.Nicolò del Lido, processo 104 :Affitti di Corte 15 documenti;
processo 93:affitti di Piove,1 documento.
10Società d’incoraggiamento per la provincia di Padova (1855) Scritti raccolti e pubblicati dalla Società, Padova, p. CCVIII.
11Società d’incoraggiamento,op.cit., p. CCLXVII.
12Società d’incoraggiamento,cit., p. CCLXX.
13Keller, A. (1844) Esposizione nazionale italiana di Torino, Prodotti agrari e cenni sull’agricoltura della provincia di Padova, Padova,p.12.
14Il Raccoglitore (1881) Illustrazioni alla mostra collettiva dei prodotti agrari della della provincia di Padova, V, n. 3-4,p.3.
15Guida di Padova e della sua provincia (1842) Padova, p. 24.
16Salvagnini A (1841) Statistica della città e provincia di Padova, Padova, p.18.
17Archivio di Stato di Venezia, S. Zaccaria, B.17,17 ottobre 1209.
18Società d’incoraggiamento, cit.,p.CCVIII.
19Mattioli P.A. (1544) Dei discorsi nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo,Venezia.
20Straparola G.F. (1927) La piacevoli notti, a cura di G. Rua, Bari,p.93.
21Bada G.B. (1818) Poesie di autori vari dette alla tavola del N.H. Andrea Erizzo nel suo luogo di villeggiatura, Ponte-lungo ,luglio 1817, Venezia, p.46.
22Carrari D., Bovolenta A., in Accademia dei Concordi di Bovolenta, Scritti degli Accademici, ms. 1786, p. 208.
23Libro dei dubbi (1552) Venezia,p.54.
24Marcolin G., Libertini D. Storia popolare di Piove di Sacco,cit.,p. 108.
25Codice Diplomatico Padovano, Venezia 1879, p. LXXIII.
26Marcolin G., Libertini D. ,Storia popolare di Piove di Sacco,cit., p. 108.
27Codice Diplomatico Veronese,,t.2, n.29 a. 894; t.2, n.42 a. 897.
28Codice Diplomatico Padovano,op. cit. , doc.67,99,100, 107,257,260.
29Codice Diplomatico Padovano, doc.85, 117.
30Gloria A. (1870) Paleografia e diplomatica,Padova , p.681.
31Brunacci G. Storia della diocesi di Padova, Libro XXIV, pp.874 – 875.
32Società d’incoraggiamento,cit., pp.CCLXVII – CCLXX.
33Unione italiana vini, Annuario vinicolo 1920 .
34Marcolin G., Libertini D., cit. p.109.
35Sambin P. (1964) Altre testimonianze (1525-1540) di Angelo Beolco, in “Italia medioevale e umanistica, VII, pp. 231 – 235.
36Fontana G. J. (1857) Notizie storico statistiche sulla villa antica di Correzzola, Venezia.
37Portenari A. Della felicità di Padova, cit. , p.54.
38Gloria A.(1862) Territorio padovano illustrato, Padova, p.284.
39Codice Diplomatico Padovano,cit., II,doc. 74, p.61.
40Marcolin G., Libertin D.,cit. , p.110.
41Società d’incoraggiamento,cit., pp.208.
42Ibidem, p. CCLXVII.
43Keller A., Mostra collettiva della Giunta distrettuale di Padova, Prodotti agrari e cenni
sull’agricoltura della provincia di Padova, Padova 1884, p.18.
44Illustrazioni alla Mostra collettiva dei prodotti agrari della provincia di Padova, cit.,
p.45.
45Scappi B. (1570) Opera, Venezia (I edizione).
46Referto sulle spoglie equine rispetto all’igiene e all’industria in queste province, in “Il Raccoglitore”, s.II, IV (1867), n. 7, pp.105.
47Banchetto di carne equina, in “Giornale di Padova”, 9 febbraio 1872.
48Gennari G., cit., p.12.
49Davila E.C (1631) Istoria delle guerre civili di Francia, Venezia ( I ediz.).
50Itinerario di M. Sanuto per la terraferma veneziana (1483), Padova 1847.