I padri benedettini e la loro attività agricola in Saccisica. Seconda parte: L’impegno dei monasteri per rendere coltivabile la terra

di Francesco G. B. Trolese

2.1 – Le corti monastiche

I monaci medioevali furono apprezzati per l’impegno culturale e per l’opera di evangelizzazione, ma non lo furono di meno per la loro attività di bonifica dei terreni paludosi o incolti[1]. Tuttavia a questo riguardo si deve tener conto che il più delle volte i monaci tradizionali, i cosìddetti monaci neri, agivano né più né meno come dei veri imprenditori affidando ai loro sudditi (schiavi, servi della gleba, contadini) il lavoro materiale di dissodamento dei terreni come avvenne per San Giorgio Maggiore e Santa Giustina nelle terre di Codevigo, Correzzola e di Legnaro per non parlare di altre, riscattate dagli acquitrini a partire almeno dal XII secolo. Al contrario i cistercensi, monaci riformati vestiti di bianco, realizzarono il dissodamento e la bonifica dei terreni con il lavoro manuale prevalente di propri membri, in maggioranza fratelli conversi. Grazie alla loro laboriosità – ispirata dall’amore di Dio e dalla Regola di san Benedetto da Norcia, secondo la quale «sono veramente monaci, se vivono del lavoro delle proprie mani»[2] – si ebbe una coltivazione più razionale dei terreni mediante la rotazione del seminativo con il prativo, così come una produzione vinicola di qualità in virtù della scelta dei vitigni adatti alla qualità dei terreni, particolarmente fertili delle colline e pianure della Borgogna francese in cui erano situati i monasteri di Citeaux e di Clairvaux. I conversi durante la giornata lavorativa erano esentati dall’obbligo della recita dell’ufficio divino in coro con i monaci sacerdoti e da altri momenti di vita comunitaria. E’ per merito di questi umili religiosi se le abbazie di Chiaravalle Milanese[3] e di Morimondo in Lombardia[4], di Chiaravalle della Colomba nel Piacentino[5], di Follina e di Brondolo nel Veneto[6], per non ricordare altre realtà cistercensi, poterono bonificare e coltivare i loro immensi patrimoni, istituendo un fitto reticolo di insediamenti rurali chiamati grancie o granze, dove essi risiedevano fuori dal monastero di professione, come avvenne, nel Duecento e nel Trecento, nel territorio pedemontano di Treviso presso il fiume Piave, per le dipendenze del monastero di Follina nella granza di Sottoselva[7]. Nel Padovano il termine granza non fu tanto collegato all’attività dei cistercensi, quanto invece alle fattorie di consistenti possedimenti goduti dalle monache di grandi cenobi cittadini come ad esempio Santo Stefano che aveva grandi proprietà a Granze di Camin[8] o Sant’Agata in Vanzo che possedeva un estesa “grancia” a Pozzoveggiani[9].

L’effettiva bonifica dei terreni era affidata il più delle volte dai monaci delle nostre zone ai conduttori dei fondi, fossero essi livellari o affittuari o coloni. E’ il caso, ad esempio, dell’abate Giovanni di San Michele di Candiana il quale nel concedere a livello quattro campi a Cofeto di Cufo il 27 maggio 1190 a Roverelle ordinò che attorno alla proprietà fosse scavato un fossato largo sei piedi per il deflusso delle acque, per metà scavato da Cofeto e per metà dai confinanti, ordinando inoltre che sulle rive non fossero piantati salici, i quali crescendo avrebbero impedito il libero scorrimento delle acque; il contadino doveva inoltre consegnare alla canipa (magazzino) del monastero un terzo dei prodotti della terra (biada, fieno e ogni altro frutto) da ripartirsi alla presenza di un incaricato dell’abate e in soprappiù avrebbe dovuto ogni anno corrispondere la decima parte dei nuovi prodotti[10].

Dove i fondi agricoli dei monasteri avevano grandi estensioni si procedeva alla costruzione di edifici per la residenza dell’amministratore e per la raccolta dei prodotti; erano queste le corti, dotate di ampi magazzini, di capienti fienili, di vaste aie, di capaci granai e di estese cantine, dove i prodotti venivano ulteriormente lavorati, essicati e conservati prima d’essere inoltrati ai mercati vicini, o consegnati ai pubblici magazzini annonari di Venezia e di Padova.

Testimonianze di questi edifici si riscontrano precocemente, fin dall’inizio dell’espansione patrimoniale in Saccisica da parte dei monasteri. Ad esempio si sa che la corte di San Giorgio Maggiore di Venezia era collocata a Codevigo, ove il 1 novembre 1173 fu rogato un atto di donazione di un terreno a Melara da parte di Bono infante[11] e il 1 dicembre 1196 fu ordinato a Megna di Cortefolverto di far affluire i raccolti di spettanza del monastero[12].

San Nicolò del Lido aveva nella Saccisica tre residenze dominicali dotate di magazzini, una a Corte, un’altra a Codevigo e una terza a Vallonga. Quella di Corte, articolata in 365 campi, era più estesa delle altre. In essa i monaci risiedevano però solo in certi periodi dell’anno (specie durante la mietitura del grano, la vendemmia e la raccolta di altri prodotti agricoli) quando il cellerario, l’economo o qualche altro monaco intervenivano per dirigere e controllare i lavori. Solo il commesso (un membro della comunità veneziana legato da promessa religiosa) vi dimorava stabilmente. L’ampio complesso oltre ad avere granai, stalla, fienile, pozzo, forno e aia per l’essicazione dei cereali[13], era dotato di una cappella intitolata a san Giacomo per la celebrazione della messa e la recita del divino ufficio, officiata quando i monaci vi risiedevano, ed utilizzata dalla popolazione di Corte quando era inagibile la loro chiesa[14]. Da Corte dipendevano altre fattorie, tra cui due a Campolongo Maggiore di 152 campi, affidate a famiglie di fiducia[15]. Anche le corti di Codevigo e di Vallonga erano dotate di case dominicali con cortili, orto e fabbriche agricole. L’abbazia di San Nicolò del Lido nel momento della sua soppressione, decretato dal Senato veneto nel 1771, possedeva nella Saccisica a Corte una casa dominicale con cantina, arnesi, stalle, cortile, orto, brolo ed edifici agricoli e 16 campi; a Beverare di Corte due case con stalle, cortile, orto e 71 campi; a Sampieri di Corte una casa con 75 campi, due casoni con 7 campi; a Campolongo Maggiore 4 casoni con cortile, orto e chiesura di 8 campi, e un podere di 52 campi; a San Nicolò di Piove e Codevigo case dominicali, cortili, orto, edifici agricoli per 207 campi. Tutti i possedimenti allora erano in affitto, messi all’asta furono aggiudicati nel 1775 alla nobile famiglia Gradenigo di Rio Marin[16].

 

2.2 – Il monastero di Santa Giustina nel territorio

L’abbazia di Santa Giustina aveva due corti in Saccisica, quella di Legnaro, costruita nel XV secolo e quella di Correzzola, innalzata nel medesimo periodo su impulso del cellerario Antonino da Milano, come definitiva sistemazione di quella precedente di Concadalbero, che come si è detto i monaci di Santa Giustina avevano ricevuto dai coniugi Guido e Giuditta Sambonifacio nel giugno del 1129[17].

La corte di Legnaro, situata al centro del paese accanto alla chiesa parrocchiale di San Biagio, controllava l’amministrazione di ben 1.150 campi padovani suddivisi in 20 possessioni dotate dal XV secolo di case in muratura, aia per l’essicazione dei raccolti, orto, forno e pozzo. Accanto ad ogni fattoria esistevano dimore più modeste, in muratura o a mattoni crudi con copertura di paglia (casoni), per i lavoratori stagionali o arsenti i quali fruivano di “chiusure” di pochi campi in affitto messe a disposizione dal monastero. Agli inizi del Seicento le dimore degi arsenti furono quasi tutte costruite in mattoni. La sede centrale era dotata di vasti granai, di cantine, di stalle, di una amplissima aia e di una dimora, con cappella dedicata a santa Giustina, ove risiedevano in tempo di raccolta i monaci venuti da Padova per l’occasione e stabilmente il religioso, quasi sempre un commesso benedettino, che aveva il compito di sorvegliare i lavori dei campi e seguire tutte le operazioni di immagazzinamento e di conservazione dei prodotti. I terreni di Legnaro erano quasi tutti, dopo la loro iniziale bonifica, di tipo arativo, le cui semine rispettavano rigorosamente la regola della rotazione dei terreni[18]. L’andamento di questa corte dal lato amministrativo era affidato al terzo cellerario, che risiedeva a Santa Giustina, con la supervisione del primo cellerario. Agli inizi del Seicento le onoranze ricavate ogni anno dai contadini ammontavano a 100 paia di galline, 60 paia di capponi, 100 paia di pollastri, 30 paia di oche, 100 libre di carne di porco[19].

La corte di Correzzola aveva un territorio di competenza di circa 12.649 campi suddiviso nelle cinque gastaldie di Correzzola (2357 campi), Brentà dell’Abbà e Civè (2430 campi), Concadalbero (2357 campi), Cona (2367 campi), Villadelbosco (1950 campi)[20]. Tutti gli edifici rurali erano costruiti in mattoni con coperture a coppi; le dimore degli arsenti agli inizi del Seicento furono in buona parte costruite in mattoni, non prima d’aver demolito i casoni[21]. Agli inizi del Seicento questa corte era considerata dal monaco annalista Girolamo da Potenza, (a differenza delle altre situate a Maserà, Monselice, Torreglia e Rovolon), «quella dove il monastero ha tutto il nervo del entrade, ochio dretto o core de questo corpo» [22]. Non per nulla la corte annoverava 93 grandi case coloniche e oltre 320 casupole per i salariati., tutte costruite a spese del monastero e riparate quando occorreva[23]. Per provvedere a tale bisogna era attiva nell’ambito della corte una fornace per la costruzione di mattoni e quadrelli[24].

L’edificio principale della corte era stato innalzato a ridosso di un’ansa del Bacchiglione con un andamento curvilineo. La scelta di trasferire la sede centrale da Concadalbero a Correzzola consentiva di avere i granai e le cantine a ridosso del fiume con l’opportunità di caricare i raccolti direttamente sulle barche, inviandoli all’occorrenza tanto a Padova, risalendo il fiume, quanto verso il mare a Venezia o Chioggia[25]. Il natante per il trasporto delle persone e delle merci inviato a Padova era un burchiello di rovere costruito a Pontelongo, trainato sopra l’argine da un cavallo con tre uomi a bordo con custode, portava 56 quintali di merce; una seconda barca da carico, capace di 83 quintali di merce con tre uomi a bordo e un custode, era trainata da buoi, i quali a Ponte San Nicolò ricevevano il cambio[26].

La corte era dotata di un’ala per la residenza dei monaci, detta monasterino, di una cappella per l’uso liturgico dedicata a Santa Giustina, di locali per il disbrigo degli affari del cellerario, di amplissimi granai, di una vasta aia per l’essicazione delle granaglie, di capaci cantine, di una grande stalla per i cavalli e per gli animali da tiro e di brolo recintato.

L’Abbazia di Santa Giustina aveva al vertice della sua amministrazione il cellerario primo, che risiedeva a Padova. Data la vastità dei possedimenti nel Cinquecento furono istituiti altri cellerari, uno dei quali, il secondo, dimorava stabilmente nella residenza dominicale di Correzzola in compagnia di altri monaci e commessi. Il suo compito era quello di essere «fattor sopra tutti li fattor». A lui si richiedeva inoltre «oltre la bontà de vita» e la correttezza nell’amministrazione, che fosse «vigilantissimo et non sparagni fatica e desaggio alcuno nel bisogno de rotte o inondatione de fiumi; prattico de luoghi et ragioni et confini del monastero; bisogna essere homo nervoso et non abagliarse in defendere le ragioni del monastero massime con li nobili confinanti quali tutti cercavano scargarse de le acque … bisogna nel tempo de rotte star sempre a cavallo et a modo de valoroso capitano, discorrere in diverse parte, animando li arsenti et servitori del monasterio a fare il debito suo non sparagnando parimenti alla borsa et dar li debiti bisogni a quelli che se faticano per il monasterio».[27] I braccianti (arsenti) nei possedimenti di Correzzola ammontavano al numero di 300 persone, pagate e spesate dal monastero, e nei giorni di intenso lavoro venivano loro forniti cinque pasti, dato che in quei frangenti “il pane et vino va a carri”.[28] Costoro per tutti i ruoli che ricoprivano divennero con il tempo i veri uomini di fiducia del cellerario, tanto che nel Seicento si concedeva loro gratuitamente un piccolo podere (chiusura) di 3 o 4 campi. Usanza che fu censurata dal Magistrato sopra monasteri di Venezia, il quale con decreto del 18 ottobre 1671 ordinò che le chiusure concesse agli arsenti fossero soggette ad un canone di affitto[29]. Alle categorie dei fattori, dei coloni e degli arsenti vanno aggiunti una cinquantina di artigiani operanti direttamente nella corte nei diversi ruoli di muratori, carpentieri, “marangoni, bottari, canevari, fornari”, cuochi, barbieri, barcaioli, fabbri. Così composta la corte risultava così un’azienda che forniva stabilmente lavoro a quasi 400 persone, non contando i membri delle famiglie coinvolte, e i poveri che numerosi accorrevano alla porta della corte, i quali tutti dipendevano dal buon andamento dell’economia monastica[30].

Il cellerario Antonino da Concorezzo da Milano fu il primo che negli anni trenta del Quattrocento iniziò una sistematica e razionale bonifica dei possedimenti monastici, prendendo le mosse dalla contrada Pissanzuco di Villadelbosco, riscattata dalla famiglia padovana Frigimelica che nel Trecento l’aveva avuta a livello per pochi soldi dall’abate del tempo[31]. L’operazione fu favorita dalle larghe disponibilità finanziarie di Santa Giustina in seguito alla vendita (1436) delle possessioni di Mason Vicentino, Breganze e Marostica[32] e ad un grazioso prestito elargito dal protonotario apostolico Guido Gonzaga, benemerito per aver favorito l’adesione alla riforma di Santa Giustina del monastero di San Benedetto di Polirone nel 1420, di cui era abate commendatario[33].

Poiché la popolazione residente nel tenimento di Correzzola era molto esigua, a causa del territorio impaludato e della recente guerra di Chioggia tra la Serenissima e la repubblica di Genova (1379-1380) che aveva arrecato notevoli distruzioni e fughe di abitanti, il cellerario fu costretto ad importare intere famiglie da altre zone del Padovano e finanche dalla Lombardia[34]. Il metodo adottato per il prosciugamento dei terreni fu in larga misura simile a quello impiegato dai monaci cistercensi nelle marcite lombarde coll’innalzare le quote dei terreni, non per colmata ma a forza di vanga, gettando sui medesimi la terra ricavata dallo scavo sistematico dei fossi, eseguito dai conduttori dei fondi e dai braccianti agricoli (arsenti). Con l’immigrazione fu importato anche il culto di san Rocco allora assai popolare e diffuso in terra lombarda per le sue virtù miracolose contro le piaghe e la peste, così che la chiesa e la confraternita del luogo aggiunsero all’antico titolo di san Nicolò quello del nuovo santo[35].

Il medesimo cellerario modificò la quasi totalità dei contratti agrari, riducendone la durata da ventennali a quella quinquennali[36], abolendo dove era possibile tutti i livelli mediante riscatto e concedendo i fondi a colonia parziaria[37], piuttosto che ad affitto. Quest’ultima modalità fu adottata verso la metà del Seicento per alcune porzioni e nel pieno Settecento per tutte le gastaldie, quando l’amore dei monaci per le terre del monastero era considerevolmente scemato e anch’essi si comportavano ormai a questo proposito come facevano i latifondisti laici[38]. Nel Cinquecento la durata dei contratti in moltissimi casi fu ristretta a tre anni[39]. Tuttavia è da tener presente che il monastero alla scadenza rinnovava le concessioni senza difficoltà agli stessi soggetti poiché non c’era l’usanza di espellere i contadini dai fondi coltivati da generazioni dalle medesime famiglie, come ebbe apertamente ad affermare il 22 ottobre 1507 il cellerario Girolamo Bollani durante un dibattito processuale riguardante un lavoratore di Legnaro, a meno che i coloni non si dimostrassero gravemente inadempienti al momento della corresponsione dell’affitto.[40]

Oltre all’ampia stalla presente in ogni fattoria a Correzzola vi era un allevamento di mucche e di manzi per le esigenze alimentari del monastero, dislocato in un’apposita costruzione chiamata “La Vanezza” edificata nel 1570, capace di oltre 200 capi di bestiame, ma nel 1650 il numero degli animali allevati si era ridotto a 68 unità, dai quali veniva ricavata una rendita di 445,10 scudi romani[41]. La gestione di questa fattoria era affidata in soccida a famiglie di contadini e bovari. Il monastero aveva sempre l’obbligo di fornire a proprie spese gli animali, gli utensili e gli strumenti per la conduzione sulla falsariga di quanto aveva fatto il cellerario Antonino da Milano nel 1452 quando aveva stipulato un contratto di soccida che prevedeva la consegna di 100 capi di bestiame e degli attrezzi per l’allevamento. I bovari invece conferivano al monastero al termine del ciclo produttivo la metà dei prodotti, vale a dire il latte, il formaggio, il burro, la ricotta. Nel Quattrocento la maggioranza degli animali durante l’estate veniva trasferita, mediante trasumanza della durata di più giorni, da Concadalbero ai pascoli del Vegrolongo situato a Bastia di Rovolon[42]. Quando la tenuta del Vegrolongo fu sottoposta ad un radicale intervento di bonifica[43], l’alpeggio estivo, che durava dal 12 giugno al 12 settembre, fu spostato verso la fine del XV secolo sulle montagne sopra Asolo nei prati presi in affitto dal vescovo di Treviso, pascoli ancora attivinel Settecento[44]. Nel Cinquecento il pascolo estivo veniva effettuato nella contrada “El Pizzon” di Correzzola, lontano cinque miglia dalla corte[45]. L’allevamento era così curato che aveva prodotto, mediante incroci, una razza particolare di mucche e di manzi. Lo stesso accadde per i cavalli, la cui schuderia era capace di 100 unità e la cui selezione diede origine ad un ceppo adatto per il tiro e per il diporto, animali «molte volte bramati et desiderati da molti signori et massime venetiani per loro carozze»[46].

Nel tempo invernale le sponde dei canali, dei fossi e i prati, riservati al pascolo, furono oggetto anch’essi di un puntuale contratto a soccida, o in affitto a seconda dei casi e dei tempi, con i pastori del Trentino fin dal 1287, i quali per 500 pecore dovevano al monastero 1000 libbre di formaggio, e per 600 corrispondevano 1200 libbre di formaggio e 4 agnelli.[47] Rapporto che con il passare del tempo subì variazioni nella resa e nella posta, ma comunque continuò per secoli.

Corte benedettina

2.3 – I rapporti con la popolazione

Dove i monasteri ebbero estese possessioni innalzarono pure a proprie spese delle cappelle private che col tempo divennero sedi di chiese parrocchiali, a meno che tali edifici sacri già non esistessero al tempo delle donazioni vescovili o signorili, come avvenne per Legnaro, Conche e Concadalbero. L’esercizio della cura d’anime in tali luoghi fu affidata ordinariamente fin dalla fondazione a dei vicari curati, nominati dalla stessa abbazia e investiti del beneficio alla stregua dei vassalli in pieno capitolo monastico, cui seguiva l’approvazione vescovile per l’esercizio della parte sacramentale. Solo dal Cinquecento e fino al 1768 l’abbazia di S. Giustina inviò i suoi monaci a svolgere il servizio parrocchiale a Correzzola, Villadelbosco, Civè, Concadalbero, Brenta dell’Abbà, mentre a Isola dell’Abbà e a Legnaro le parrocchie furono sempre affidate al clero secolare[48]. Dopo il Concilio di Trento, che aveva rafforzato il potere vescovile nella cura d’anime, la consuetudine dei parroci-monaci diede origine a lunghe e dispendiose liti giurisdizionali con i vescovi di Padova, specialmente con san Gregorio Barbarigo e il nipote Gian Francesco Barbarigo.[49].

La cura d’anime esercitata in prima persona dai monaci contribuiva a coinvolgere nelle vicende del monastero padovano i contadini, che si consideravano non solo sudditi tenuti alla conduzione dei suoi beni e alla prestazione delle relative onoranze, ma in un certo senso anche figli e sodali con le sorti dello stesso cenobio. Perciò gli abati nel rinnovare i contratti agricoli avevano l’avvertenza d’includere tra le clausole da rispettare anche quelle dell’osservanza dei comandamenti e dei precetti della Chiesa incoraggiando l’educazione cristiana, l’unità e l’armonia tra le famiglie e l’onestà dei costumi. Tanto è vero che a dalla fine del Quattrocento gli abati alla stregua dei vescovi si premurarono di visitare periodicamente le parrocchie unite al monastero.[50]

Nel Medioevo la maggioranza della popolazione al servizio dei monasteri viveva in abitazioni costruite con la paglia. Una sola testimonianza di questa situazione tra le molte che si potrebbero produrre: il 12 aprile 1196, durante il processo per l’omicidio di Sikirino e di suo figlio Corrado uccisi a causa di un feudo a Isola dell’Abbà ricevuto da Wicimano da Sossano Mainetto di Pietro “de Perelda” ebbe a dire al giudice Racionator Biagio “de Lioncio” che il defunto abitava in “quadam domus de palea”[51], e con il tempo l’aveva migliorata costruendo una casa in buon legname con il colmello sopra[52].

Anche nel confinante paese di Legnaro dell’Abbà, risulta che le dimore dei contadini, erano costruite con travi, tavole di legno e tetto di paglia[53], e che anzi, quando non veniva rinnovato il contratto di affitto o di livello, essi smontavano le loro abitazioni e le trasferivano con le masserizie nel nuovo luogo di lavoro. Qualora poi avessero rinunciato a tale trasferimento il monastero li rimborsava delle spese sostenute.[54]

Gli obblighi dei contadini nei riguardi dei monasteri erano regolamentati dai contratti che venivano via via stipulati alla scadenza nel rispetto della normativa vigente; secondo le consuetudini feudali il contadino contraente con tale atto diveniva a tutti gli effetti vassallo dell’abate in forza di un contestuale un giuramento di fedeltà che includeva tra l’altro l’obbligo della difesa dei diritti abbaziali fino all’uso delle armi e allo spargimento del sangue[55].

La solidarietà tra abbazie nei riguardi di coloni e braccianti ebbe modo di esprimersi non solo nel rapporto di sudditanza di quei lavoratori verso i padroni residenti nei loro ricchi cenobi, ma anche nella condivisione dei rischi connessi con le coltivazioni agricole che erano soggette alle variazioni delle condizioni climatiche. Negli anni di carestia i cellerari si mostravano di norma tolleranti verso gli agricoltori nell’esigere i canoni pattuiti, oppure, e ciò capitava di frequente, «in caso di calamità naturali fino al condono di ogni contributo e anzi l’abbazia di S. Giustina sopperiva del tutto alle spese del riassetto fondiario quando sopravvenivano inondazioni disastrose»[56]

Nei più acuti momenti di crisi economica della popolazione i monasteri agivano talvolta anche come prestatori di soldi su pegno, ma senza interessi, per non cadere nel peccato dell’usura. A titolo d’esempio rievoco alcuni casi intervenuti a questo proposito. Il 14 magggio 1134 il giudice Paganino del fu Aldegerio di Padova cedette al priore di San Cipriano di Murano, Rodolfo, il feudo di una masseria e di altre proprietà a Corte in pegno di un prestito senza usura di 100 lire veronesi per la durata di tre anni, al termine dei quali se non avesso restituito la somma ricevuta il cenobio sarebbe divenuto proprietario dei beni pignorati.[57] Un secondo caso si verificò il 16 febbraio 1156 quando Ottone da Selvazzano ricevette in prestito per tre anni 300 lire veronesi dall’abate di San Giorgio Maggiore dando in pegno le sue proprietà di Codevigo e di Gardeto con tutti i relativi redditi.[58] Un terzo caso intercorse nell’ottobre 1157 tra il priore Ariprando di San Cipriano di Murano e il conte di Pola Naimiero del fu Pietro Polani, doge, che per un prestito di 402 lire di denari veronesi consegnò in pegno sei mansi a Castel di Brenta con tutti i relativi redditi[59]; da notare che a sua volta il monastero aveva ricevuto in prestito quella medesima somma dai coniugi Giovanni di Paolino e Drusiana, per cui costoro emisero una liberatoria al priore Guglielmo nel maggio 1173, quando essa fu interamente restituita[60].

Il ricorso al prestito su pegno non fu praticato solo tra le persone legate ai monasteri, ma dallo stesso vescovo di Padova Gerardo Offreducci che avendo bisogno di moneta sonante si rivolse all’abate Leonardo di San Giorgio Maggiore. Infatti in cambio di 150 lire veronesi avute in prestito concesse il 15 ottobre 1171 il diritto di decima e di fodro sulle terre del monastero situate nella Saccisica fino all’estinzione del debito[61].

Da questi pochi esempi si può arguire, anche se il fenomeno non deve essere assolutizzato, che i monasteri coinvolti in tali operazioni creditizie disponevano di elevati redditi e di liquidità monetaria non indifferente. Ad esempio le rendite dell’abbazia di Santa Giustina erano valutate dalla Santa Sede nel XIV secolo come equivalenti a quelle dell’episcopato padovano, vale a dire a 6.000 lire[62]. Si tenga presente inoltre che i monasteri erano particolarmente stimati non solo dalle persone appartenenti ai ceti sociali più elevati, ma anche dalla povera gente perché anche in tali operazioni i monaci erano mossi da una ragione superiore, tanto che negli atti notarili si ricordava che il denaro veniva concesso per amore di Dio, in vista del perdono dei peccati e della salvezza dell’anima.

La fiducia della popolazione nei riguardi dei monaci può essere largamente rilevata anche dalle numerose donazioni di fondi agricoli ampiamente attestate dalle fonti storiche dell’XI e XII secolo. Ciò avveniva non solo per la concreta difficoltà di gestire il proprio fondo in mancanza di risorse adeguate, ma anche perché i contadini riscontravano nei monaci uno speciale carisma spirituale a motivo del loro impegno e della loro scelta di vita, in specie quando erano direttamente coinvolti nelle correnti di riforma della Chiesa. Ciò accadde, ad esempio, con il monastero di San Cipriano di Murano, inserito attraverso l’abbazia di San Benedetto di Polirone nel riformismo monastico di Cluny (Francia) che tanto bene aveva operato per la riforma della Chiesa[63]. I coniugi padovani Paganino e Flocilda il 14 maggio 1134 offrirono spontaneamente con atto disgiunto, poiché seguivano la legge longobarda che prevedeva la divisione dei beni nel matrimonio, al priore Rodolfo del monastero di San Cipriano un appezzamento di terra situato ad Olmedo di Codevigo a rimedio delle loro anime e dei propri parenti. Il motivo che li spingeva a tale donazione poggiava sull’insegnamento evangelico affermante che chi dona i propri beni in questa vita riceverà il centuplo nella vita eterna[64]. Un analogo atto di liberalità compì Gumberto da Celsano nei riguardi del monastero di San Pietro di Padova il 13 ottobre 1134, quando offrì alla badessa Richelda un manso situato a Cortefolverto di Arzergrande coltivato da un uomo libero Nicolò e da due schiavi di nome Amabile e Maria[65].

Anche il sacerdote Simone e i villici Domenico e Massimiano da Cortefolverto offrirono il 27 maggio 1137 al priore Madelberto del monastero di San Cipriano di Murano un appezzamento di terreno situato a Cortefolverto per ottenere la mercede eterna[66]. Altrettanto fecero, sempre in favore di San Cipriano, i fratelli Nicolò e Vitaliano del fu Giovanni di Tado da Padova il 10 giugno 1147, quando consegnarono due mansi situati a Campolongo Maggiore e a Piove di Sacco, in cambio di preghiere di suffragio per l’anima del loro padre Giovanni e per tutti i fedeli defunti[67]. Lo stesso cenobio il 12 agosto 1154 ricevette in dono da Zilio del fu Andrea Scardevella un podere di sei campi arativi, prativi e con vigne situato ad Arzergrande e contestualmente il monastero cedette a livello al medesimo donatore non solo il bene offerto ma anche la masseria coltivata da un’altra persona con l’obbligo di consegnare al priore ogni anno quindici soldi veronesi, la terza parte del vino prodotto, quattordici staia di frumento, un prosciutto, due focacce un cappone o una gallina e due polli, con l’onere di alloggio; inoltre il vino, il fieno e il lino prodotti dovevano essere consegnati all’approdo della barca del monastero o a Lova, o a Ruvidola, o a Cadola, dove esistevano dei canali navigabili[68].

L’abbazia di San Giorgio Maggiore non fu da meno in quanto a donazioni: l’abate Ottone ebbe in dono da Giovanni Selvatico il 14 luglio 1146 un appezzamento di terra aratoria a Rosara[69]. Lo stesso Giovanni Selvatico non solo tenne a livello beni del monastero veneziano a Rosara[70], ma agì come gastaldo dei monaci in quelle terre come avvenne il 17 agosto 1152 quando consegnò a Viviano Copo in rappresentanza dell’abate Pasquale venti lire veronesi per l’acquisto della quarta parte di un manso a Codevigo[71]. Il Selvatico poi il 13 aprile 1154 fu investito dai marighi di Rosara e Melara nella sua qualità di vicario dell’abate Pasquale di un podere situato a Ruvidiolo[72]. Un’altra donazione, tra le tante mosse da motivi soprannaturali, fu quella effettuata il 13 luglio 1175 dal sacerdote Giovanni e da suo padre Enrico in favore di San Giorgio Maggiore di Venezia consistente in un appezzamento di terreno dotato di casa a Codevigo confinante con altre proprietà del monastero[73]

A quei tempi erano frequenti non solo le donazioni, ma anche le vendite di terreni agricoli ai cenobi e con successiva retrocessione in affitto o in livello ai medesimi venditori dei medesimi terreni. E’ il caso di Sambo e di suo nipote Giovanni che cedettero in proprietà un sedime con casa al monastero di S. Cipriano di Murano il 30 ottobre 1174 e lo stesso giorno lo ebbero a livello[74]. Un’analoga operazione effettuò Lorenzo Beato con le monache di San Zaccaria di Venezia il 13 maggio 1170 vendendo alle medesime sette campi di terra a Corte per riaverli a livello dall’abbadessa Gisentruda il medesimo giorno con in più altri venti sempre a Corte[75]. Le stesse monache veneziane il 2 ottobre 1170 ebbero prima in cessione da Domenico Merello quattordici campi a Corte e contestualmente glieli affidarono a livello con l’obbligo di corrispondere al cenobio la quarta parte di tutti i prodotti[76]; Un’ulteriore operazione fu effettuata il 2 maggio 1177 tra Cono di Teuzenda da Corte e l’abbadessa Casota di San Zaccaria di Venezia per due pezzi di terreno a Corte, ma con una variante che il venditore dopo avere ricevuto in livello perpetuo le terre, contestualmente le cedette, non senza aver prima ottenuto il consenso della badessa, ai fratelli Giovanni Buono e a Rainaldo per tredici lire[77]. E si potrebbe continuare con gli esempi, ma basti considerare che questi scambi interessati sono un palese indice delle difficoltà che incontravano i contadini nella coltivazione dei loro possedimenti per cui si sentivano più al sicuro sotto la tutela di un ente monastico che grazie alle sue vaste possessioni e alle entrature nella società del tempo, fosse essa veneziana o padovana, speravano con tali scambi di potere meglio sopravvivere nei propri poderi. Visto che quando non riuscivano ad onorare le loro pendenze annuali nei riguardi dei monasteri ottenevano delle dilazioni nei pagamenti o a ricevere un condono del mancato pagamento. E’ il caso di Dolzano da Corte che avendo ricevuto quindici campi a livello a Corte l’11 ottobre 1170 dalla badessa Gisentruda di San Zaccaria, fu citato in giudizio dalla subentrante superiora Casota nel 1180 perché non aveva rispettato i patti e in più non aveva nell’ultimo anno coltivato i campi a dovere.[78]

 

2.4 – L’organizzazione delle corti monastiche

I monaci non si limitarono a ricevere in dono o ad acquistare appezzamenti di terra, ma li organizzavano attraverso permute con altri proprietari del luogo o confinanti, specie quando la contiguità dei fondi poteva essere causa di liti o comportare la regolamentazione delle acque. E’ il caso della permuta di una casa con un appezzamento di terra avvenuta il 5 agosto 1151 tra l’abate Pasquale di San Giorgio Maggiore di Venezia e l’arciprete Lorenzo di Piove di Sacco[79]. Così il 9 marzo 1196 l’abate Marco Zorzi dello stesso monastero scambiò con Vaneto da Corte due appezzamenti di terreno a Corte con un sedime situato a Rosara, confinante con altri beni del monastero e con quelli di San Cipriano di Murano[80]. Il 1 dicembre 1196 il suo successore Corrado concedette a Megna da Cortefolverto due poderi situati l’uno ai confini di Arzergrande di San Michele e l’altro a Cortefolverto. In cambio il Megna doveva dare tra altro quattro staia di frumento da recare nella casa dominicale di Codevigo; poteva anche commerciare i prodotti con gli abitanti di Piove di Sacco[81].

Nel 1199 le monache di San Lorenzo di Ammiana diedero a Menico de Blancho da Piove di Sacco due appezzamenti di terra situati a Piove di Sacco nella contrade Rio Maggiore e Vignole con l’obbligo di coltivare i terreni migliorandoli e non peggiorandoli, di concimare i campi, di piantare nuovi alberi e di curare lo scavo dei fossi (“laborare, lodamare, plantare et fossadare”). Il conduttore doveva anche corrispondere ogni anno alle monache la metà dei prodotti della terra, la metà del legname ricavato (in prevalenza salici); non poteva prelevare i prodotti delle terre senza il consenso del rappresentante (nunzio) del monastero, se dimorante a Piove, altrimenti doveva metterli al riparo dalle intemperie e successivamente condurli a proprie spese nella casa del monastero, oppure, con il consenso dell’abbadessa, poteva recarli a Lova o a Corte o a Pontelongo, dove approdavano le barche dirette a Venezia.[82]

I monaci di S. Cipriano di Murano nel 1174 avevano un gastaldo di nome Domenico di Conte per i beni di Corte, Melara, Codevigo, che curava i loro interessi. Egli era presente in qualità di testimonio il 30 ottobre 1174[83] e anche negli atti successivi riguardanti la Saccisica fino al 9 maggio 1183[84].

Per quanto riguarda l’impegno dei monaci e dei loro coloni nella bonifica dei terreni e nello scavo di canali di scolo erano frequenti i contrasti anche aspri sull’uso delle acque con affittuari, confinanti e consorti. Ad esempio il 18 aprile 1178 Enrico giudice operante a Rosara intervenne per sedare la vertenza apertasi tra Enrico Selvatico, affittuario di San Giorgio Maggiore[85], e il priore Arnolfo di S. Cipriano di Murano sull’uso dell’acqua dei fossati[86].

A Correzzola fu dunque l’abbazia di S. Giustina a impegnarsi a fondo nella bonifica dei terreni. Un impegno che iniziò con l’abbaziato riformatore di Ludovico Barbo attraverso suo fratello Pietro alla prima metà del XV secolo e continuato da tutti i cellerari che si avvicendarono nella guida dell’amministrazione del cenobio giustiniano[87]. Nei quattro secoli in cui l’abbazia fu impegnata in tale benemerita opera brillarono per intensità di lavoro, Antonino da Milano che come si è detto iniziò la bonifica a Villadelbosco, Zaccaria Castagnola da Padova che operò soprattutto a Correzzola[88] e Sisto da Brescia che al tempo del secondo governo dell’abate Leonardo da Pontremoli (1537-1540) fece «gran bonificamenti a Coregiola essendo homo de grande ingegno et sapere, fece la strada longa piantata da tutte le bande de povali (pioppi) et una fossa maestra de gran beneficio detta l’una et l’altra la Sista»[89]. Ciò avvenne dopo che nel 1536 erano stati deviati per decreto della Serenissima gli estuari dei fiumi Brenta e Bacchiglione dalla Laguna a Brondolo, occludendo i canali delle Trezze e Toro che scaricavano le acque dei canali di Correzzola[90].

Una causa intentata contro i monaci sui confini dei possedimenti del monastero a Correzzola, nel territorio veneziano chiamato Dogado, dibattuta davanti alla Magistratura veneziana delle “Rason vecchie” nel 1534, si concluse con la sconfitta del monastero, per cui i monaci perdettero ben 20.000 ettari vallivi non facilmente bonificabili, posti oltre la cosiddetta linea Malipiera, così il Desman e il Foresto furono persi per sempre dal monastero[91].

Gli annali della badia di S. Giustina ricordano ancora altri monaci che emersero nella lotta contro l’invadenza delle acque stagnanti dovute non solo alle abbondanti piogge e alle frequenti rotte degli argini dell’Adige, ma anche alle alluvioni causate dalla cattiva regolamentazione delle acque a monte del possedimento di Correzzola come avvenne intorno al 1558-59 quando la Repubblica di Venezia con lo scavo del Gorzone, effettuato per bonificare il territorio di Monselice, scaricò una grande massa di acque stagnanti verso valle allagando così i possedimenti di Correzzola, per cui i cellerari Celso da Verona e Serafino da Padova provvidero ad innalzare, con grande dispendio di risorse, opportuni argini e coronelle a protezione dei terreni del monastero[92].

Dal Cinquecento in poi il fiume Gorzone ha richiesto al monastero di Santa Giustina un immane impegno finanziario, «passione, tribulationi et angustie et dispendii» per ovviare ai suoi numerosissimi danni alle coltivazioni agricole e alle abitazioni dei contadini. Ne era ben conspevole il cellerario Giustino da Pontremoli quando nel 1560 confidava a Girolamo da Potenza in visita a Correzzola: «Se si vedessero quanti denari son buttati in questa palude, apparerriano tutti questi arzeri de oro et con tutto questo non è fatto niente»[93]. Qualche anno dopo (1569) l’abbazia si trovò in una difficile congiuntura economica a causa delle continue rotte dell’Adige, del Brenta e del Gorzone, per cui i raccolti a causa dell’impaludamento dei terreni furono insufficienti per sfamare sia i monaci che i lavoratori. Il monastero in quel frangente si trovò indebitato di ben 44.000 scudi. Poiché la causa prima di tutto ciò erano gli argini troppo deboli di fronte alle piene dei fiumi, in particolare del Gorzone[94], i cellerari decisero di «fortificare con arzaretti o coronelle al Foresto et sostentar le acque aciò non cimassero de sopra»[95]. Il lavoro seguito allora con tanta passione e fatica comportò un considerevole esborso di ducati (1.454 ducati nel 1561 e 1.814 nel 1562),[96] ma fu così fortunato che nel giro di un quinquennio al tempo dell’abbaziato di Giuliano da Piacenza (1570-1575), già professo di Santa Giustina, il monastero potè estingere tutti i debiti e ad affrontare altre spese necessarie[97].

Tutto questo lavoro fu tuttavia vanificato nel 1579 quando la Serenissima per impedire l’insabbiamento di Venezia stabilì «che tutti li impedimenti de arzeri, porte, chiavege et altri ostacoli che impedivano le lagune per cinque miglia o più fossero tutti tolti et buttati via, fo eseguito inviolabilmente et con grande rigore sul Piovano». Fu così che i monaci di Santa Giustina a Correzzola nella contrada El Pizzon, dovettero demolire nel 1580 le porte che impedivano l’ingresso nel tenimento delle acque salmastre della laguna di Venezia, a suo tempo costruite contro le acque alte dell’Adriatico causate dal scirocco invernale[98]. Fu merito dell’abate Paolo da Venezia se il Collegio o ufficio delle acque, dopo lunga discussione con escussione di tre avvocati, permise di ripristinare le porte Sumane nel 1587[99].

Sul finire del secolo il monastero fu costretto a far scavare a proprie spese il canale Rebosola, perché i signori Garzoni, proprietari di terreni a Pontecasale, avevano scaricato l’acqua stagnante delle loro campagne verso quelle del monastero[100]. Analogo atteggiamento ebbe una nobildonna di casa Diedo, che nel 1598 tagliò gli argini del Bacchiglione per bonificare i terreni di sua proprietà, con danno dei possedimenti del monastero a ridosso del Brentone[101]

In quei tempi l’abbazia si premurava insomma della continua bonifica e dell’incremento dei propri terreni a Correzzola, ancora nel 1604 nella gastaldia di Concadalbero i monaci comperarono dai nobili Priuli settanta campi, divisi in più appezzamenti, frammisti alle possessioni del monastero[102]. Ma questo fu l’ultimo caso di ingradimento della manomorta ecclesiastica, perché qualche anno dopo, nel periodo più acuto delle controversie giurisdizionalistiche con papa Paolo V sfociato nel famoso interdetto (1606) fulminato nei riguardi dei sudditi della Repubblica, la Serenissima emanò severissime leggi che limitavano l’ingradimento delle proprietà ecclesiastiche. Anzi due disposizioni di legge del 1604 e del 1605 obbligarono i religiosi a disfarsi dei fondi agricoli ricevuti in dono o in legato[103].

Nel Seicento e nel Settecento il monastero di Santa Giustina per tenere efficienti e produttivi i terreni di Correzzola dovette affrontare notevoli esborsi monetari per la riparazione di argini, l’elevazione di coronelle e quant’altro era necessario per tenere sempre in ordine i canali di bonifica in accordo con gli altri consorti. Nel Seicento l’economia del monastero mantenne le rendite dei suoi possedimenti abbastanza in linea con il secolo precedente, ma nel Settecento con l’affievolirsi dell’interesse per le campagne e nonostante gli ordini abbaziali si nota nei riguardi del tenimento di Correzzola un’attenuazione dell’entusiasmo per la coltivazione dei campi, per la conduzione degli allevamenti e per la cura delle opere di bonifica. La terribile inondazione del 1708 diede una colpo di grazia ai grandi progetti di regolamentazione delle acque. L’impaludamento delle campagne portò con se epidemie e miseria tra la popolazione al servizio del monastero[104]. Un ripresa di interesse per le opere di bonifica si ebbero, sia nel 1740 quando si provvide dopo gli improduttivi anni della nebbia del 1735 e della tempesta del 1738 ad un “escavamento generale” “di tutti gli scoladori”[105], sia nel 1774 con l’abate Ignazio Suarez, dopo che già nel 1763 il Senato veneto aveva ingiunto ai Consorzi di bonifica del Conselvano e del Foresto, a cui l’abbazia concorse con un notevole esborso di denari, di escavare il canale dei Cuori. Purtroppo al progetto del Suarez mancarono le risorse economiche necessarie, e ci si limitò ad interventi più contenuti d’ordinaria manutenzione dei corsi d’acqua[106].

Quanto non fu portato a termine dai monaci fu successivamente intrapreso da chi nel 1808 ricevette in dono il latifondo della corte di Correzzola da Napoleone, vale a dire da Francesco Melzi d’Eril duca di Lodi e dai suoi discendenti. Solo con l’installazione delle macchine idrovore a vapore nel 1857 si riuscì a riscattare dall’impaludamento le terre dagli antichi monaci e a ridare nuovo splendore alla tenuta di Correzzola, giudicata «il più grandioso colonico edifizio di simile genere» nel Lombardo-Veneto[107].

NOTE

[1] Per i problemi rappresentati dall’attività bonificatrice dei monasteri si veda la silloge di studi La bonifica benedettina, Roma 1963; Per una lettura marxista del rapporto tra monaci e contadini come lotta di classe si veda M. Universo, S. Giustina signora di Correzzola,  «Arte veneta», 29(1975), p. 259-261.

[2] La Regola di san Benedetto e le Regole dei Padri, a cura di S. Pricoco, Milano 1995, p. 225.

[3] Sul cenobio cistercense milanese si veda: Chiaravalle. Arte e storia di un’abbazia cistercense, a cura di P. Tomea, Milano 1992; San Bernardo e l’Italia. Atti del Convegno di studi. Milano 24-26 maggio 1990, a cura di P. Zerbi, Milano 1993 (Bibliotheca erudita. Studi e documenti di storia e filologia, 8).

[4] Un’Abbazia lombarda: Morimondo, la sua storia e il suo messaggio. Atti del Convegno celebrativo nel VII centenario del termine dei lavori della chiesa abbaziale, 1296-1996, Morimondo 1998; Le carte del monastero di Santa Maria di Morimondo. I (1010-1170), a cura di M. Ansani, presentazione di E. Cau, Spoleto 1992 (Fonti storico-giuridiche. Documenti, 3).

[5] Sull’abbazia piacentina si vedano: P. Corvi – G. Spinelli, S. Maria di Chiaravalle della Colomba, in Monasteri benedettini in Emilia-Romagna, a cura di G. Spinelli, Milano 1980, p. 84-95; A. M. Rapetti, La formazione di una comunità cistercense. Istituzioni e strutture organizzative di Chiaravalle della Colomba tra XII e XIII secolo, Roma 1999 (Italia sacra, 62..

[6] L. J. Lekai, I Cistercensi. Ideali e realtà, con appendice di G. Viti, I cistercensi in Italia, L. Dal Prà, Abbazie cistercensi in Italia. Repertorio, Certosa di Pavia 1989.

[7] P. A. Passolunghi, Esperienze agrarie in ambito monastico lungo il Piave. La granza di Sottoselva, in Mogliano e il suo monastero, 1000 anni di storia. Atti del Convegno di studi, Mogliano Veneto (Treviso), 6-7 giugno 1997, a cura di F. G. B. Trolese, Cesena 2000 (Italia benedettina, 19), p. 139-162.

[8] Bortolami, Corti e granze, p. 28.

[9] Il «Liber» di S. Agata (1304), p. XXV, LXI, LXVI, LXIX, 6, 269-271, 273.

[10] Sambin, Documenti inediti, n° 5 p. 12-13.

[11] CDP, II, n° 1130 p. 286.

[12] S. Giorgio, III, n° 589 p. 417-418.

[13] Mazzucco, Lo stato economico, p. 356-361.

[14] V. Biolo Petitjacques, La chiesa di San Tommaso Apostolo di Corte, in Corte bona et optima villa del Padovano, a cura di R. Zannato, Piove di Sacco 2007, p. 142, 145, 161.

[15] C. Grandis, Casa Coccato (ex Gusa) di via Righe, in Corte bona et optima, p. 235-241.

[16] D. Bressan, Le riforme degli enti religiosi attuate dalla Repubblica di Venezia nel secolo XVIII: il caso dei benedettini, tesi di dottorato di ricerca in storia, Università di Padova, Dipartimento di Storia 2005, relatori P. Preto e G. Gullino, p. 89-90.

[17] Il Catastico verde del monastero di S. Giustina, ni 45-48 p. 100-107.

[18] F. G. B. Trolese, La presenza dei monaci di Santa Giustina a Legnaro e nella Corte, in La corte benedettina di Legnaro, p. 33-70.

[19] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana o annali del monisterio de S. Giustina, Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 320, f. 189 r.

[20] Cfr. A. Stella, I beni fondiari di S. Giustina prima e dopo la secolarizzazione (dall’economia parziaria alla grande azienda), «Atti e memorie della Accademia patavina di scienze, lettere ed arti», 76 (1963-64), III, p. 93-109, 97; Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, 29-67.

[21] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 172v.

[22] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 189v.

[23] A. Stella, Esperienze agrarie e sociali dei benedettini padovani nella prima metà del ‘700, «Benedictina», 13(1959), p. 285.

[24] Il Conselvano. Storia ed immagini dell’edilizia rurale e del luoghi di culto, a cura di F. Zecchin- T. Grossi, Battaglia Terme (Padova) 1982, p. 60, 66; Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p.207-214.

[25] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 192 r.: «Questa corte è talmente posta et situata al argere del fiume che uscendo la botte dala caneva et il frumento dal granaro subito va in barca et va verso Padova o Venetia, havendo il monasterio tre barche quale servono solamente a portare queste robbe o al monasterio o a Venetia. Per tal comodità del fiume parimente vien provisto Chiozza».

[26] Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p. 54.

[27] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 190v.

[28] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 191v.

[29] Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p. 35.

[30] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 193r.

[31] G. De Sandre Gasparini, Contadini, chiesa, p. 30-58.

[32] Stella, La proprietà ecclesiastica, p. 62 nota 3.

[33] F.G.B. Trolese, Ludovico Barbo e S. Giustina. Contributo bibliografico. Problemi attinenti alla ri­forma monastica del Quattrocento, Roma 1983, p. 213-228; Trolese, Aspetti e problemi, p. 9-37.

[34] Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p. 225.

[35] De Sandre Gasparini, Contadini, chiesa, p. 109-124; sulla fortuna del culto del santo guaritore si veda . San Rocco. Genesi e prima espansione di un culto, a cura di A. Rigon – A. Vauchez, Bruxelles 2006 (Analecta Bollandiana, 87).

[36] Trolese, La presenza dei monaci, p. 41-46.

[37] P. Preto, Un contratto di colonia parziaria a Correzzola nel 1571, in S. Benedetto e Otto secoli (XII-XIX) di vita monastica nel Padovano, Padova 1980 (Miscellanea erudita, 33), p. 151-170.

[38] Stella, Esperienze agrarie, p. 281-309.

[39] Preto, Un contratto di colonia, p. 155-146.

[40] Trolese, La presenza dei monaci, p. 46 e nota 85 p. 67.

[41] Stato dei monasteri nel 1650, Padova, Biblioteca del Seminario, Cod. 506, f. 453r.

[42] La corte benedettina di Correzzola. Documenti e immagini, a cura di G. Borella e altri, Correzzola – Padova 1981, sch. 30 p. 61-62.

[43] F. G. B. Trolese, San Giorgio di Rovolon. Una chiesa donata a Santa Giustina di Padova, cenni storici di un rapporto secolare, in F. Holzer, Rovolon, amore per una terra, Padova 1997, p. 47-63, 50-51.

[44] Stella, La proprietà ecclesiastica, p. 62 nota 2; per l’esempio di un contratto di affitto per il pascolo estivo in montagna si veda nel Settecento: Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p.182-184.

[45] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 192v.

[46] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 192v.

[47] La corte benedettina di Correzzola, sch. 16 p. 57.

[48] F. G. B. Trolese, L’abbazia di S. Giustina di Padova durante il secolo XVIII, in Settecento monastico italiano. Atti del I Convegno di studi storici sull’Italia benedettina. Cesena 9-12 settembre 1986, a cura di G. Farnedi – G. Spinelli, Cesena 1990 (ma 1991) (Italia benedettina, 9), p. 167-201, 196-200; L. F. Maschietto, «Ut grex dominicus salubriter regatur, conservetur et custodiatur». Visite pastorali degli abati di S. Giustina in Padova alle parrocchie dipendenti (1534-1791), Padova 1998 (Fonti e ricerche di storia ecclesiastica padovana, 26).

[49] Trolese, L’abbazia di S. Giustina di Padova, 197-201; Id., Il vescovo Barbarigo e gli ordini religiosi: casi significativi di un rapporto travagliato, in Gregorio Barbarigo patrizio veneto, vescovo e cardinale nella tarda controriforma (1625-1697). Atti del Convegno di studi, Padova 7-10 novembre 1996 a cura di L. Billanovich e P. Gios, Padova 1999 (San Gregorio Barbarigo. Fonti e ricerche, III/2), p. 867-934.

[50] Maschietto, «Ut grex dominicus salubriter regatur», p. 17-39.

[51] S. Giorgio, III, n° 583 p. 403.

[52] S. Giorgio, III, n° 583 p. 404.

[53] Cfr. Rippe, Padoue et son contado, p. 805.

[54] Trolese, La presenza dei monaci, p. 36.

[55] Cfr. Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p. 68-69.

[56] Stella, Dalle bonifiche benedettine alla grande azienda agricola. Esperienze agrarie e sociali di Correzzola dal XV al XVIII secolo, in La corte benedettina di Correzzola, p. 9.

[57] CDP, II, n° 266 p. 207-208.

[58] CDP, II, n° 657 p. 8.

[59] CDP, II, n° 686 p. 277.

[60] CDP, II, n° 1109 p. 26-27

[61] CDP, II, n° 1052 p. 238; S. Giorgio, III, n° 335 p. 83-84.

[62] Rationes decimarum Italiae nel secoli XIII e XIV. Venetiae-Histria-Dalmatia, a cura di P. Sella e G. Vale, Città del Vaticano 1941 (Studi e testi, 96), p. 181 ni 1992 e 1993.

[63] In un placito di Federico Barbarossa del 5 gennaio 1164 il monastero di San Cipriano di Murano è elencato tra le chiese (San Leonardo di Conche, San Marco di Fogolana) e i monasteri (Praglia, Campese) legati a Polirone, i quali furono presi sotto la protezione imperiale: CDP, II, n° 838 p. 114-115. Infatti si è nel periodo storico in cui si stava preparando la lega lombarda contro la parte imperiale e la città di Mantova aveva parteggiato per l’imperatore: CDP, II, n° 876 p. 138, ma successivamente si ribellò (1167, 27 aprile): CDP, II, n° 910 p. 155. Il giuramento della lega lombarda è del 1 dicembre 1167: CDP, II, n° 918 p. 160-162. Santa Giustina a sua volta con una bolla dell’8 febbraio 1164 si era assicurata la protezione pontificia di Alessandro III per tutte le sue chiese e proprietà: CDP, II, n° 840 p. 116-118.

[64] CDP, II, n° 267 p. 208-209.

[65] CDP, II, n° 271 p. 212.

[66] CDP, II, n° 316 p. 243.

[67] CDP, II, n° 490 p. 362-263.

[68] CDP, II, n° 624 p. 445.

[69] CDP, II, n° 470 p. 350; S. Giorgio, II, n° 219 p. 442-444: negli attergati dell’edizione Lanfranchi si menziona che il Selvatico diventò monaco dopo la presente oblazione, mentre al contrario nei documenti successivi appare impegnato nella conduzione dei terreni a Rosara.

[70] CDP, II, n° 551 p. 400.

[71] CDP, II, n° 569 p. 411; S. Giorgio, II, n° 251 p. 498-499.

[72] CDP, II, n° 612 p. 438; S. Giorgio, II, n° 265 p. 519-520.

[73] CDP, II, n° 1180 p. 311.

[74] CDP, II, ni 1163-1164 p. 303-304.

[75] CDP, II, ni 993-994 p. 203-204.

[76] CDP, II, n ° 1004 p. 211-212.

[77] CDP, II, ni 1253-1255 p. 348-350. Cono aveva già ceduto alla badessa di San Zaccaria cinque campi in tre appezzamenti di terra aratoria a Corte il 25 febbraio 1171 ricevendoli poi a livello: CDP, II, n ° 1023 p. 220.

[78] CDP, II, n° 1007 p. 212-213; n° 1350 p. 404.

[79] S. Giorgio, II, n° 238 p. 477; CDP, II, n° 552 p. 401.

[80] S. Giorgio, III, n° 592 p. 401-402.

[81] S. Giorgio, III, n° 589 p. 417-418.

[82] S. Lorenzo, n° 56 p. 98-99.

[83] CDP, II, ni 1162-1164 p. 302-304.

[84] CDP, II, n° 1479 p. 478

[85] CDP, II, n° 1467 p. 472-473.

[86] CDP, II, n° 1178 p. 1296.

[87] Stella, La proprietà ecclesiastica, p. 58-59.

[88] Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p.229; Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 95r e v.

[89] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 113r: il cellerario purtroppo preso da sete di lucro personale scappò dal monastero con un ingente somma di denaro.

[90] Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p. 270-271.

[91] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 112v; Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p. 46; A. Stella, Bonifiche benedettine e precapitalismo veneto tra Cinque e Seicento, in S. Benedetto e otto secoli (XII-XIX) di vita monastica nel Padovano, Padova 1980 (Miscellanea erudita, 33), p. 180-181.

[92] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 127r-128r; Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p. 278.

[93] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 128v.

[94] Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p. 283.

[95] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 143v.

[96] Intervento monastico nel territorio, in La corte benedettina di Correzzola, p. 68-69 sch. 36.

[97] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 143v-145v.

[98] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 150r e v; Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p. 293-294.

[99] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 152v; Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae, p. 297; Intervento monastico nel territorio, in La corte benedettina di Correzzola, p. 64 scheda 31; sulla collaborazione tra i monaci e la famiglia Garzoni per la comune bonifica dei terreni si veda: Stella, Bonifiche benedettine, p. 171-183, 178-179.

[100] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 152r.

[101] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 166r e v.

[102] Girolamo da Potenza, Cronica giustiniana, f. 196r.

[103] Stella, Bonifiche benedettine, p. 190; G. Cozzi, Venezia nello scenario europeo (1517-1699), in G. Cozzi – M. Knapton – G. Scarabello, La repubblica di Venezia nell’età moderna dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992 (Storia d’Italia diretta da G. Galasso, 12/2), p. 75, 87-91.

[104] Stella, Bonifiche benedettine, p. 171-183; M.C. Lovison, Panorama storico del territorio Padovano sud-orientale. Note di toponomastica, in La corte benedettina di Correzzola, p.36-37.

[105] Resoconto decennale di S. Giustina, Padova, Biblioteca del Monumento Nazionale di S. Giustina, ms. 18, f. 2r, 13r.

[106] Stella, I beni fondiari di S. Giustina, p. 95-96.

[107] Stella, I beni fondiari di S. Giustina, p. 96-109, 108; Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p. 57-59.