Berengario, Pietro di Padova e la corte di Sacco. Politiche e doni di un re altomedievale.

di Cristina La Rocca

Berengario, Guido e Lamberto e lo scontro per il titolo regio e imperiale

Una delle rare testimonianze padovane relative al X secolo è un modesto dossier documentario di età berengariana che si apre con la donazione, effettuata dallo stesso Berengario, a Pietro, vescovo della città, datata all’897[1]. In essa il re dona in piena proprietà all’ episcopio patavino in honore sanctae Dei genitricis virginis Marie sanctaeque Iustine martiris constructo la corte fiscale di Sacco con tutte le sue pertinenze. Si tratta di una carta particolarmente importante poiché, come è stato più volte osservato, per tutta l’età longobarda fino alla metà del secolo IX, le menzioni documentarie relative alla città di Padova sono del tutto inconsistenti e nessuno dei re longobardi e degli imperatori carolingi – fino al diploma di Ludovico II dell’855 – risulta aver emanato diplomi a favore del vescovo di Padova, nonostante la presenza di carte più antiche risulti più volte evocata in diplomi successivi[2].

Corte di Sacco
Corte di Sacco

Il diploma di Berengario a Pietro è molto interessante perché sotto molti punti di vista esso rappresenta la svolta, effettuata anzitutto a livello di politica locale, che l’età berengariana costituì per la rappresentatività non solo delle istituzioni ecclesiastiche padovane, ma in generale per tutto il territorio dell’Italia nord orientale, per ciò che riguarda sia l’innalzamento di status delle sue élites sia dei suoi centri urbani, anzitutto di Verona. Prima però di affrontare direttamente il nostro documento, occorre effettuare una premessa dedicata a illustrare, su piani successivi di approfondimento, in primo luogo le complesse vicende politiche di ampio spettro che coinvolsero l’Italia settentrionale durante l’età di Berengario, per dedicarsi successivamente a contestualizzare la figura di Berengario all’interno del panorama dell’aristocrazia carolingia. Osserveremo infine il documento padovano, inserendolo nella più generale strategia politica di Berengario, alla luce delle più recenti ricerche dedicate a questo tema.

Il momento cronologico su cui si incentra il mio lavoro si colloca tra l’887 – anno della deposizione dell’ultimo imperatore discendente per via maschile dalla dinastia dei Carolingi, Carlo il Grosso – e il 923, anno in cui Berengario re d’Italia e imperatore, fu ucciso a tradimento a Verona. Si tratta di un periodo molto complesso e turbolento, tradizionalmente noto alla storiografia medievistica con l’appellativo di “secolo di ferro”, data l’angolazione privilegiata di osservazione che tendeva a enfatizzare da un lato il caos politico e dall’altro la presenza di agenti esterni di disturbo (come la presenza continua delle scorrerie degli Ungari). Vediamone anzitutto i tratti essenziali.

berengarioSul finire del IX secolo, il territorio del cosiddetto Regno d’Italia si estendeva nell’Italia settentrionale dal Piemonte al Friuli; nell’Italia centrale esso comprendeva l’Emilia fino a Modena e gli attuali territori della Toscana, delle Marche e degli Abruzzi. Soprattutto in questa ultima parte, però, i terrori del regno si intercalavano irregolarmente con i possedimenti della Chiesa di Roma. In seguito alla deposizione dell’ultimo discendente in linea maschile della dinastia carolingia – Carlo il Grosso – nell’887 (Mc Lean, 2007), si accese nell’aristocrazia italica una competizione molto accesa per ricoprire il titolo regio che vide anzitutto fronteggiarsi due candidati: Berengario del Friuli e Guido di Spoleto. Entrambi avevano molte caratteristiche in comune: erano entrambi funzionari pubblici – cioè detenevano per incarico regio due importanti circoscrizioni pubbliche, ove esercitavano i poteri delegati dal re di comandare l’esercito, riscuotere le imposte e infine di presiedere ai tribunali pubblici. Sia Berengario, sia Guido erano succeduti al proprio padre nel ricoprire il titolo funzionariale, pur in assenza di una formale ereditarietà delle cariche: ciò significa che l’efficace azione svolta dai loro padri aveva portato l’imperatore a scegliere un loro discendente per ricoprire la carica pubblica, permettendo al gruppo familiare di considerarla più come titolo dinastico che non come ufficio delegato dal re. Per ciò che riguarda il profilo patrimoniale e i luoghi originari dei loro gruppi familiari, si tratta in entrambi i casi di gruppi di origine transalpina, trasferitisi in Italia in seguito alla conquista franca del Regno dei Longobardi (774). Il patrimonio fondiario degli Unrochingi – così è convenzionalmente definito il gruppo parentale di Berengario, da uno dei suoi caratteristici nomi maschili – aveva un forte nucleo in area tedesca nell’area del basso Reno (cioè nella zona chiamata Alamannia nelle fonti di età carolingia), mentre il gruppo dei Widoni aveva i suoi possedimenti concentrati nella zona della Mosella. Da almeno una generazione il loro ambito di azione politica si era però trasferito in Italia: il padre di Berengario, Everardo, aveva assunto il titolo comitale nell’828 nella importante circoscrizione del Friuli, cioè nel territorio che, grossomodo andava da Cividale del Friuli fino al corso del fiume Adda a ovest, cioè in un’area estremamente delicata e politicamente instabile, data la prossimità geografica con il confine orientale dell’impero. Il padre di Guido, Lamberto, aveva invece assunto la carica comitale nel ducato di Spoleto – Camerino, un’altra area politicamente molto instabile. Essa non solo si trovava a contatto diretto con le terre della Chiesa di Roma e le terre del ducato di Benevento, dominato dai Longobardi, ma sin dall’ultima età longobarda aveva manifestato forti tendenze autonomistiche rispetto agli ordinamenti del regno dei Longobardi (Gasparri, 1983). Rispetto a Guido, Berengario poteva inoltre dirsi carolingio, per parte materna: come vedremo più avanti, la madre di Berengario, Gisla, era infatti la figlia dell’imperatore carolingio Ludovico il Pio. L’apporto femminile all’identità politica dei due contendenti, nonostante si tratti di un aspetto di norma non considerato dalla storiografia di stampo istituzionale, fu determinante per la creazione della rete di rapporti politici e di fedeltà aristocratica. Berengario aveva infatti preso in moglie Bertilla, appartenente al gruppo familiare funzionariale dei Supponidi, che avevano cariche pubbliche e uffici ecclesiastici nell’area di Parma e Piacenza e la cui identità aristocratica si fondava anzitutto sull’essere il gruppo prescelto dai Carolingi per trarne la moglie del re nell’ex regno dei Longobardi: tra le antenate di Bertilla, vi era forse Cunegonda, moglie del re Bernardo, nipote di Carlo Magno († 816) e certamente Angelberga, moglie del re e imperatore Ludovico II († 875) (La Rocca, 2003; Bougard, 2007). Anche Guido, dal suo canto, aveva inteso la propria unione matrimoniale come un importante vettore di alleanze politiche: egli aveva infatti sposato Ageltrude, figlia di Adelchi, duca di Benevento (La Rocca, 2003).

Lo scontro tra Guido e Berengario si strutturò allora anzitutto come opposizione tra le ambizioni dell’aristocrazia dell’Italia centrale e quella nord orientale, senza tuttavia che i due schieramenti fossero mai strutturati in modo troppo stabile. Alterne furono infatti le vicende fino all’899: fino a quel momento si alternarono l’incoronazione a Pavia di Berengario (888), seguita a un anno di distanza da quella di Guido, dopo la sconfitta militare inferta al suo rivale sul fiume Trebbia. Nell’891, grazie ai buoni rapporti con la Chiesa romana e con il papa, Guido riuscì a farsi incoronare imperatore a Roma, associando al trono – cioè designando come suo successore – suo figlio Lamberto. L’ascesa di Guido non compromise però del tutto l’autorità di Berengario che conservò il titolo regio fino all’894, anno in cui improvvisamente Guido morì. Fino a questa data, allora, la geografia politica dell’Italia centro settentrionale appare ulteriormente suddivisa tra il regno di Berengario (esteso prevalentemente nell’Italia nord orientale fino all’Adda e basato a Verona) e un secondo regno, incentrato su Pavia e sull’Italia centrale che, comprendendo al suo interno la città di Roma, permetteva al suo detentore di acquisire il titolo imperiale. Questa spartizione di ambiti geografici si perpetuò anche con la successione a Guido di suo figlio Lamberto, il quale però morì, anch’egli del tutto inaspettatamente, nell’898. La morte di Lamberto lasciava dunque Berengario privo di rivali sul territorio italiano. Dopo aver sconfitto e accecato il re di Provenza, Ludovico – anch’egli in lizza per la corona imperiale – nel 905 Berengario riacquistò il controllo del territorio del regno nel suo complesso e risale al 915 la prima menzione della sua nomina imperiale.

Come sarà risultato chiaro, erano le fazioni aristocratiche locali che determinavano l’esito della lotta politica e il prevalere di un candidato sull’altro: quelle ostili a Berengario – dislocate anzitutto nel territorio dell’Italia centro meridionale e nord occidentale, dove si trovava la capitale del regno, Pavia – sin dal 918 non tardarono a riorganizzare le loro forze, anche attraverso alleanze matrimoniali. Nel 923, utilizzando lo scontento per la presenza minacciosa degli Ungari in Italia settentrionale, il gruppo degli aristocratici occidentali, rimasti ostili a Berengario, invitò in Italia re Rodolfo II di Borgogna, che sconfisse militarmente Berengario a Fiorenzuola d’Arda. Lo stesso anno Berengario fu ucciso a Verona, da Flamberto, un suo fedele passato al nemico (Sergi, 1998).

Questo scarno riassunto dei principali eventi politici riguardanti il regno italico, non è tuttavia affatto sufficiente per spiegare da solo la complessità dei fenomeni in atto. Occorre allora modificare la prospettiva di osservazione, attraverso uno sguardo più ravvicinato alle fonti. Va anzitutto sottolineato che le origini familiari di Berengario permettono di collocarlo tra uno dei più importanti gruppi aristocratici dell’impero carolingio, i cosiddetti Unruochingi. Pare che l’area di radicamento fondiario di questo gruppo parentale fosse originariamente l’Alamannia, ma, successivamente all’invio di Everardo, conte del Friuli e padre di Berengario, in Italia nell’828, la funzione pubblica da essi esercitata permise loro di crearsi un’ampia piattaforma di clientele e di solidarietà aristocratiche anzitutto nella zona in cui essi svolgevano la loro funzione pubblica, vale a dire la marca del Friuli. Anche se nulla si sa della giovinezza di Berengario, si suppone che egli fosse nato attorno all’850, terzo figlio maschio dell’unione tra Everardo e Gisla, figlia dell’imperatore Ludovico il Pio e della sua seconda moglie Giuditta. Questa linea di discendenza carolingia, seppure per via femminile, costituì indubbiamente uno degli aspetti legittimanti dell’autorità di Berengario, che fu successivamente puntualmente messo in rilievo per far risaltare l’identità carolingia di un regno Italico indipendente.

Occorre allora anzitutto soffermarsi sulla particolarità di questa unione matrimoniale. Si ritiene che il matrimonio tra Gisla ed Everardo sia avvenuto nell’836, vale a dire due anni dopo l’invio in Italia del re ribelle Lotario, come espediente consapevole da parte della coppia imperiale formata da Ludovico il Pio e Giuditta per rafforzare la posizione di controllo di Everardo, annoverato tra i principali fedeli all’imperatore. La coppia aveva età molto diverse. Mentre nell’836 Everardo era certamente un uomo maturo, Gisla, nata attorno all’821, era una ragazza di appena 15 anni. Ma se questo divario di età era normale tra le coppie aristocratiche dell’età altomedievale, è il ruolo di Gisla che merita qualche considerazione. Infatti si tratta infatti di un’unione socialmente asimmetrica che conferiva alla famiglia del marito una forte connessione con la dinasta regnante. Si è infatti osservato che nella società franca, caratterizzata dalla mancanza del diritto di primogenitura, il destino delle figlie e delle sorelle del re era spesso la clausura monastica: il loro matrimonio recava infatti complicazioni per la successione al trono poiché esse potevano trasmettere al marito, ma soprattutto ai loro figli, la legittima aspirazione a detenere il titolo regio. Il matrimonio tra Everardo e la figlia dell’imperatore è dunque un’anomalia, che può essere spiegata soltanto nel contesto del rafforzamento della discendenza dell’imperatrice Giuditta, consapevole del fatto che i figli di Gisla avrebbero potuto legittimamente proporsi come successori al trono.

Everardo e Gisla ebbero nove figli i cui nomi chiaramente mostrano la volontà di qualificare la discendenza attraverso il collegamento con i Carolingi: mentre Everardo, Berengario, Adalardo, Unroch appartengono al ramo paterno (essi sono infatti il nome dello stesso Everardo, dei suo due fratelli e del padre), Rodolfo, Heilwig e Giuditta richiamano invece i nomi della famiglia dell’imperatrice, mentre la figlia chiamata Gisla come sua madre richiamava esplicitamente il patrimonio onomastico carolingio, poiché Gisla era il nome della sorella preferita di Carlo Magno. La scelta dei nomi, derivanti dagli antenati materni e paterni, riflette in sé la direzione politica di questa famiglia che, attraverso Gisla, aveva la possibilità di definire le sue aspirazioni attraverso l’utilizzo dei nomi carolingi.

Inoltre, l’altissimo livello aristocratico di questa coppia incoraggiò intellettuali e poeti a cantarne le gesta: la fertilità di Gisla fu celebrata due volte (in occasione della morte del primogenito e della nascita del secondo figlio, Unroch), mentre le imprese militari di Everardo furono ripetutamente narrate in forma poetica da Sedulio Scoto, esperto panegirista di re e imperatori. Il ruolo speciale di Everardo, in quanto marito di Gisla, e la discendenza imperiale dei loro figli non sfuggì a Sedulio che celebrò la nascita di Unroch affermando che il bimbo “risplendeva nel mondo con il seme dell’avo Ludovico imperatore augusto”[3]. Attraverso l’unione con Gisla, Everardo e suoi figli acquisivano un’identità dinastica che, grazie alla celebrazione letteraria, si modellava sulle peculiari forme della dinastia regia (La Rocca, Provero, 2000). Un’altra immagine letteraria utile a modellare l’ideologia berengariana su quella carolingia è quella del murus ecclesiae, cioè di bastione della chiesa, un espressione che riguardava sia le fortificazioni realizzate per la chiesa, sia il re che le aveva ordinate: ancora Sedulio Scoto l’aveva utilizzata per l’imperatore Lotario I e per lo stesso Everardo. La funzione del re quale baluardo della Chiesa aveva poi ricevuto una realizzazione pratica attraverso l’iniziativa di Ludovico II nel fortificare con una cinta di mura la civitas Leonina attorno alla basilica di San Pietro a Roma nell’866. Non vi è dubbio che le fortificazioni successivamente autorizzate da Berengario all’inizio del X secolo rispondevano, tra le altre cose, alla volontà di adempiere a questa importante funzione, dimostrandosi all’altezza dei suoi predecessori (Settia, 1991; Rosenwein, 1999, pp. 141-142). La volontà di inserirsi in un processo di imitazione puntuale dei re carolingi che lo avevano preceduto, Lotario I e Ludovico II, è anche evidente sotto il profilo religioso: nel sacramentarlo utilizzato dalla cappella di Berengario (e ora conservato presso la biblioteca del capitolo di Monza) i nomi di Berengario e di Bertilla furono aggiunti a quello di Lotario I tra i destinatari delle preghiere che seguivano all’Exultet durante la messa domenicale (Rosenwein, 1999, p. 142).

L’età di Berengario e il ‘secolo di ferro’ nella storiografia medievistica

Per una lunga stagione di studi Berengario ha costituito il simbolo di un’epoca velleitaria, di decomposizione dello stato: la sua piattaforma di alleanze politiche anzitutto regionali lo avrebbe costretto a cercare il consenso aristocratico attraverso la concessione perpetua di terre pubbliche e dei diritti a esse collegate. Una delle parole chiave degli studi su Berengario è allora quella di ‘immunità’, vale a dire la concessione a esercitare prerogative pubbliche da parte di privati che, tramite le donazioni berengariane, potevano così trasmettere tali diritti ai loro discendenti. La storiografia ha a lungo ritenuto che si trattasse nel complesso di un momento fortemente negativo, valutando in questa luce tutti i tratti dell’azione politica e le caratterizzazioni delle personalità in campo: come anni fa ha chiarito Giovanni Tabacco, il presupposto di tali lavori era che una società che aveva assistito alla dissoluzione della compagine dello stato carolingio non avesse al suo interno alcun elemento di sopravvivenza concreta, né alcuna prospettiva di dare luogo a forme politiche originali. La mancanza dello Stato, insomma, appariva il fondamento di tutta una serie di constatazioni malinconiche sulle assenze rispetto al periodo precedente, accompagnate da elenchi altrettanto puntuali degli elementi positivi del secolo XI che ancora non avevano fatto la loro comparsa, che impedivano concretamente di cogliere i fattori di novità espressi da quel tempo (Tabacco, 1970).

Negli anni ‘70, inaugurando un filone di studi molto proficuo ancor oggi, le conclusioni di Tabacco spinsero la ricerca medievistica a individuare, come forma politicamente originale e come espressione delle profonde novità del X secolo, i prodromi politici e istituzionali delle forme signorili del potere, che si sarebbero compiutamente sviluppate nel secolo XII. I caratteri fondanti dell’età di Berengario sarebbero stati da un lato l’ampia disponibilità regia a donare in perpetuo a singoli individui terre e i diritti ad esse connessi appartenenti al fisco regio: in questo modo Berengario avrebbe non solo concretamente depauperato i beni pubblici, ma avrebbe contemporaneamente dotato di prerogative pubbliche enti monastici, gruppi di individui e semplici individui, in modo che esse potessero essere trasmesse tra le generazioni successive per via ereditaria. Parallelamente a questo fenomeno di dispersione del complesso del patrimonio pubblico, si sarebbe poi manifestata l’accentuata tendenza a concedere a singoli gruppi il diritto di edificare fortificazioni – anch’essa una prerogativa di tipo pubblico – in seguito alle scorrerie degli Ungari, che si intensificarono progressivamente a partire dalla fine del secolo IX. Fortificazioni e diritti pubblici donati avrebbero dunque costituito l’ossatura fondante del potere esercitato direttamente sugli uomini da individui e da enti ecclesiastici. Queste valutazioni, che hanno dato luogo a una importante serie di ricerche effettuate a tappeto in tutta l’Italia settentrionale, si fondavano dunque sul presupposto che un re debole avesse necessariamente bisogno di acquisire consenso dall’aristocrazia italica e dunque i doni di terra e diritti fossero la diretta espressione di una tale debolezza. Si era infatti convinti che i doni di Berengario fossero stati distribuiti in maniera indiscriminata (come smarties, secondo l’espressione di Chris Wickham (Wickham 1981)), semplicemente a chiunque li avesse richiesti.

Di recente questa valutazione totalmente negativa è stata rimessa in discussione sotto due punti di vista: da un lato la puntuale revisione delle donazioni di Berengario ha permesso di cogliere la stringente logica che collega i singoli diplomi l’uno all’altro, permettendo di delineare una strategia politica del re, volta anzitutto a innalzare lo status e le prerogative dei gruppi aristocratici a lui già collegati, vale a dire quelli installati nel territorio friulano su cui Berengario possedeva terra e funzione pubblica. Nel 1996 un importante articolo della storica americana Barbara Rosenwein (Rosenwein, 1996) e ha infatti dimostrato come i doni del re non fossero affatto distribuiti a casaccio, ma si concentrassero anzitutto in due aree territoriali: la marca Friulana – cioè la circoscrizione territoriale pubblica dove, sin dalla prima metà del IX secolo, il padre di Berengario, Everardo, aveva esercitato la funzione comitale -, e l’area circostante Pavia, la capitale del regno, dove invece il re aveva necessità di procurarsi un sostegno politico più ampio. Esaminando poi da vicino i soggetti a cui le donazioni erano state effettuate, la Rosenwein è riuscita a ricostruire una logica stringente che legava le donazioni stesse, giungendo a concludere infine che il regno di Berengario si fondò anzitutto sull’orchestrazione molto raffinata di un network di doni, che proponeva il re come il protagonista indispensabile dell’ascesa sociale e delle speciali prerogative di un gruppo assai selezionato e ristretto. Sotto il profilo tipologico questi gruppi si articolano in tre settori: il primo è costituito dagli uomini a lui fedeli, basati più spesso a Verona, cioè la capitale del suo regno; il secondo è costituito dalla rete di alleanze attivate per via cognatica, vale a dire attraverso la parentela di sua moglie Bertilla. Essa apparteneva al gruppo aristocratico dei Supponidi, funzionari pubblici a Spoleto e successivamente a Parma e Piacenza, e permise al re di collegarsi con un gruppo più vasto di individui soprattutto in area emiliana. Il terzo gruppo riguarda infine i suoi nemici, cioè il gruppo di aristocratici gravitanti attorno a Pavia, nel tentativo di attirarli nella sua orbita politica. Con i primi due gruppi questa politica funzionò, procurando al re consenso e fedeltà; con il terzo invece no, ma non per l’inefficienza in sé del sistema, bensì al contrario quando Berengario, eletto imperatore, si dimostrò progressivamente meno munifico. Per dirla con la Rosenwein “the defection of 918 was the onsequence not of his policy, but rather of its cessation”(Rosenwein, 1999, p. 147). L’attenta considerazione delle relazioni di affinità degli individui coinvolti nella munificenza regia ha cioè permesso di capovolgere la prospettiva interpretativa precedente e di presentando le donazioni regie non già come uno sperpero necessario, bensì come un investimento operato da Berengario in vista del potenziamento della cerchia dei suoi fedeli, ergendosi dunque a promotore dell’ascesa sociale del gruppo dei suoi sostenitori, e prospettando la stessa opportunità per i suoi nemici.

Questa revisione ha anche portato anche a rivedere profondamente il significato delle immunità, una parola in uso nei diplomi regi di età merovingi a a partire dal secolo VII, inizialmente volta a delimitare un territorio in cui gli ufficiali pubblici regi non potevano avere accesso (Rosenwein, 1999). Questo lavoro ha dimostrato infatti che l’immunità fu consapevolmente utilizzata da Berengario non tanto come cosciente spreco, bensì come un vero e proprio investimento da parte regia, all’interno di un rapporto di reciprocità e di scambio di doni con l’aristocrazia che solo un re poteva attivare. Tra i doveri politici e religiosi dei re di età carolingia vi era anzitutto anche quello della generosità nel distribuire le ricchezze, associando la propria clementia alla clemenza divina. Come chiaramente affermano le arenghe dei diplomi di Berengario, egli era re grazie alla clemenza divina, a sua volta egli dimostrava la sua propria clemenza donando, attendendo in ricompensa per la clemenza dimostrata la vita eterna (Rosenwein, 1999, p. 151). Dunque le concessioni di immunità, come hanno ben chiarito gli studi recenti (Fouracre 1996; Rosenwein, 1999), non rappresentano la debolezza di un re, bensì la sua speciale capacità di controllare i suoi funzionari, escludendoli dalle ingerenze in uno specifico territorio, delimitato e reso intoccabile grazie alla volontà regia. In questa prospettiva, le donazioni di Berengario rappresentano l’enfatizzazione dell’unicità della capacità di concedere immunità, una caratteristica che solo il re possiede. Il mutamento interpretativo si fonda evidentemente sul fatto che, mentre la logica precedente interpretava le donazioni in un’ottica attualizzante, la logica ricostruita dalla Rosenwein si fonda anzitutto sulla considerazione culturale del dono quale si era costruita durante l’età carolingia.

Alla luce di tali importanti acquisizioni, occorre adesso esaminare il documento con il quale il re donò al vescovo di Padova Pietro la corte di Sacco nell’897, oggetto di interesse in questo volume.

Berengario e il vescovo Pietro di Padova.

Il documento con il quale Berengario donò al vescovo Pietro di Padova la corte fiscale di Sacco nell’897, conservato in originale, rappresenta un esempio interessante del raccordo tra i re e le élites della marca friulana che, come ho detto, costituisce una delle caratteristiche principali del regno di Berengario e della complessa dinamica della lotta politica e della trasformazione della dignità regia nel X secolo. Esaminiamone la struttura. Anzitutto, nell’arenga, il diploma presenta la donazione alla chiesa di Padova come una donazione pro anima, vale a dire un dono a Dio che varrà anzitutto al re la salvezza del suo spirito in cielo, all’interno del sistema di reciprocità della clementia che abbiamo delineato poc’anzi. Contemporaneamente, sul piano pratico, il dono di una corte del fisco regio all’episcopio padovano, conferiva al vescovo i diritti di giurisdizione insiti nella piena proprietà. Come ha notato Andrea Tilatti (1997, p. 28-29), Pietro fu il primo dei vescovi veneti a ottenere tali diritti: il dono di Sacco era dunque volto a rafforzare sia lo stretto rapporto che collegava Berengario a Pietro, sia a potenziare le capacità e le specificità vescovili della chiesa retta da uno dei suoi più fedeli funzionari.

Il vescovo di Padova, Pietro, rappresenta infatti una delle figure paradigmatiche del funzionamento del regno. La sua attività è attestata sin dall’888 con la designazione di cancellarius, in primo luogo a Pavia (888), poi a Verona nell’890 e nell’893[4]. E’ inoltre ben possibile che il Petrus notarius attestato nel 888 come redattore del diploma in copia per il monastero di Bobbio costituisca la prima attestazione di questo stesso personaggio[5]. A partire dall’896 fino al marzo del 900 egli appare ricoprire la carica di archicancellarius[6], cioè di capo della cancelleria regia; la sua carriera ha termine nel maggio 900 quando a ricoprire la carica di archicancellarius è indicato Liutuardo[7]. Pietro apparteneva dunque alla cerchia dei fedeli di Berengario anche anteriormente all’elezione pavese a re di Berengario e che si sviluppò e si radicò proprio negli anni più difficili e controversi del regno, cioè quelli compresi tra 888 e 898, successivi alla sconfitta subita da Berengario dal rivale Guido di Spoleto sul fiume Trebbia, e scanditi dall’ingombrante presenza di Guido e di suo figlio Lamberto. Durante questo decennio Berengario concentrò infatti i suoi sforzi anzitutto nella marca friulana, consolidando i rapporti e le clientele locali, e accrescendone le prerogative. Pietro, fu indubbiamente un supporto molto importante per il re. L’unico documento a noi noto rogato personalmente da Pietro mette infatti in risalto la fortissima consonanza di intenti tra lui e il sovrano. La carta emessa a favore della vedova di Ludovico II, Angelberga, con la quale Berengario, da poco eletto re a Pavia, confermava i possessi dell’ex imperatrice a lei donati dal defunto marito, non perde occasione di ribadire la linea di continuità carolingia, e dunque di piena legittimità, che collegava Berengario agli imperatori Ludovico II e Carlo il Grosso: il primo, in quest’occasione, è chiamato ‘avunculus et senior noster’, mentre il secondo è detto “noster avunculus nosterque carissimus senior Karolus vide licet invictissimus imperator[8]. La carta per Angelberga rafforzava, per l’esplicita intensità legittimante delle sue espressioni di parentela, quelle certo più deboli coniate da Pietro per Berengario nei primi diplomi da lui emanati[9]. Possiamo dunque identificare in Pietro uno principali collaboratori intellettuali del re, anzitutto a dare forma scritta alla legittimità delle aspirazioni regie di Berengario.

Come ebbe a notare lo Schiaparelli, si conserva tuttavia un solo documento esemplato dalla mano di Pietro,[10] ma la sua presenza nei diplomi di Berengario è ben più intensa poiché essa è attestata anzitutto come intermediario tra il re e coloro che richiedono i suoi favori. Come ha notato François Bougard, è a partire dalla seconda metà del IX secolo, grazie alla figura dell’imperatrice Angelberga – moglie di Ludovico II –, che la struttura della regalità carolingia tende a complicarsi e a mostrare, anche sotto il profilo diplomatistico, l’autorità regia come un’entità sempre più lontana, raggiungibile direttamente soltanto da una cerchia ristrettissima di persone.[11] Il favore del re non appare più, a partire da questo momento, essere richiesto direttamente da colui che lo necessita, bensì le petizioni giungono alle orecchie regie soltanto tramite l’intermediazione di coloro che sono prossimi al re e godono dunque del sommo privilegio di interloquire direttamente con lui. La tradizione iniziatasi con Angelberga, volta a individuare anzitutto nella moglie del sovrano il suo interlocutore privilegiato, andò successivamente ad ampliarsi, comprendendo, al suo interno, un ristretto gruppo di individui, che, proprio grazie a questa particolarità, appaiono come fedelissimi del sovrano. Pertanto, a partire dalla metà del IX secolo, la concessione di ogni dono regio implicava, di norma, la presenza di tre e non più soltanto di due soggetti (il donatore e il ricevente), comprendendo invece nel mezzo la figura del postulante, vero e proprio mediatore della generosità regia.

Si determina perciò una complessa politica basata sulla concatenazione di doni regi: ogni concessione forma una vera e propria catena tra donazioni concesse nel passato e donazioni future allo stesso gruppo di persone; inoltre ogni concessione comprende in sé ciò che Barbara Rosenwein ha efficacemente chiamato ‘lateral gift’: dopo aver funzionato come intercessore per doni verso altri individui, lo stesso soggetto diventa a sua volta il ricevente di un dono in un’ altra carta. Questa dinamica può agevolmente essere verificata nel caso di Pietro: dopo aver agito due volte da intermediario presso Berengario nell’893 e nell’896, rispettivamente a favore del monastero di San Zeno di Verona per la concessione della corte di Meleto (con il titolo di cancellarium nostrum nobisque fidissimum)[12], e insieme a Egilulfo vescovo di Mantova in favore di Aginone, vasso del conte Sigefredo di Parma per la concessione in perpetuo di cinque corti regie nel comitato di Mantova[13], nell’897 egli è a sua volta beneficiario della corte di Sacco. Nella carta dell’896 Pietro è designato per la prima volta come venerabilis episcopus e insignis archicancellarius: è dunque nello stesso frangente che si deve datare la promozione di Pietro sia nel suo ruolo episcopale, sia in quello di responsabile della cancelleria regia, in sostituzione del veronese Adalardo, che con tutta probabilità si era schierato a favore delle pretese imperiali di Arnolfo di Carinzia[14].

Nel documento dell’897, concernente la donazione della terra fiscale di Sacco all’episcopio padovano, Pietro è menzionato con l’appellativo di reverendissimum episcopum dilectumque fidelem et archicancellarium nostrum. In questo diploma, però Pietro appare aver compiuto un ulteriore passo avanti nel suo rapporto con il re: egli rivolge al re direttamente la sua richiesta, e appare cioè inserito nella ristrettissima cerchia di coloro che, data la loro prossimità al re, possono indirizzarsi a lui senza intermediari. L’assegnazione della corte di Sacco (Castagnetti, 1997) all’episcopio di Padova, e l’assunzione della carica vescovile della città, paiono ulteriormente incrementare il ruolo e il prestigio di Pietro quale intercessore regio. Nell’898, anche in seguito alla morte di Lamberto, figlio di Guido di Spoleto, Pietro (reverendissimum episcopum sacrique palatii nostri archicancellarium) compare come unico intermediario per la richiesta da parte di una nemica storica di Berengario – Ageltrude, la vedova di Guido di Spoleto e la madre di Lamberto – di due monasteri presso Camerino e Assisi[15], e successivamente insieme ad Anscario di Ivrea e a Restaldo a favore di Giovanni, medico del re e abate del monastero di santa Cristina a Corte Olona[16]; per la concessione di ami privilegi al vescovo di Modena Gamenolfo e infine per una complessa donazione a favore di Vulferio, fideli nostro, richiesta – tramite Pietro – da Sigefredo conte di Parma. Nel 899, pur conservando il suo ruolo di arcicancelliere, Pietro appare regolarmente sostituito nei diplomi emanati da Berengario a Pavia[17], possiamo cioè ritenere che, pur mantenendo la carica egli risiedesse stabilmente a Padova, a differenza che nel passato.

Il documento dell’897 rappresenta in modo molto efficace la complessità di organizzazione e di gestione dei beni fiscali, che, per le loro caratteristiche intrinseche, furono considerati res familiaris della famiglia carolingia, incarnando in sé il carattere di pubblicità dell’istituzione regia e al contempo il carattere di gestione personale del re attualmente in carica. Purtroppo, come ho avuto occasione di notare in altra sede (La Rocca, Provero, 2000) il testamento – pur ricco di preziosi particolari – redatto da Everardo e Gisla nell’867 la parte dei beni fondiari destinata al figlio primogenito Unroch, e poi, in seguito alla sua morte nell’874, passata al fratello minore Berengario, elenca in modo molto sommario i beni friulani e italiani con la sintetica espressione “quidquid in Langobardia et in Alamannia habere videmur”: la prospettiva di definizione dell’eredità di Unroch lasciava infatti aperti ampi margini di confusione tra ciò che Eberardo deteneva dal fisco regio in quanto pubblico ufficiale e ciò che invece apparteneva al suo patrimonio fondiario.

E’ certo allora che la carta del 897, oltre che aprire una nuova stagione per la dignità dell’episcopio padovano, dopo la parentesi di età longobarda – costituisce la prova dell’importanza crescente della città, alla cui guida vescovile fu indirizzato uno dei principali sostenitori del re: i successori di Pietro, a differenza che nel passato, furono costantemente oggetto della munificenza e dell’attenzione regia e imperiale.

 

BIBLIOGRAFIA

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NOTE

[1] L. Schiaparelli, I diplomi di Berengario I (= DB I), Roma 1903 (Fonti per la storia d’Italia, 35), doc. 18 (897 maggio 5), pp. 56-58.
[2] . DLII, doc. 16, febbraio 8, 855 Mantova, pp. 96-97. Nella carta si dice infatti che il vescovo Rorigus aveva mostrato all’imperatore Ludovico II i diplomi emanati a favore della sua chiesa da Carlo Magno e da Lotario. Purtroppo di essi non è rimasta traccia.

[3] . Sedulius, Carmina, 2, 25 (per Lotario); 2.53 (per Everardo) in MGH, Poetae Latini aevi carolini, 3, p. 192 e 212.

[4] DB I, doc.

[5] DB I, doc. 1, 888 Verona, p. 7 (copia sec. IX-X)

[6] DB I, doc

[7] DB I, doc. 31, 900 maggio 24

[8] Un analoga formula si trova successivamente nel documento di conferma dei beni dei canonici di Novara, datato tra 911 e 915, nel quale gli imperatori carolingi Ludovico, Carlomanno e Carlo il Grosso sono chiamati “ insignibus augustis, quorum prosapie nostra coruscat origo” DB I, doc. 105, s.l., pp. 271-273: 272 r. 2-3

[9] . Non si tratta comunque di carte conservate in originale, ma in copie più tarde. DB I, doc. 1, Verona 888, p. 5 : “degnissime recordationis domni Karolis imperatoris senoiris et consobrini” (per il monastero di Bobbio); doc. 2 , 888 marzo 21, Mantova, p. 9 r. 11-12: “pie recordationis Karoli necnon et Ludovici seu et domni Karoli seniori set consobrini” (per il monastero di Sesto in Silvis)

[10] L. SCHIAPARELLI,

[11] F. BOUGARD, Louis II, ; F. BOUGARD, Engelberga, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma

[12] DB I, doc. 11

[13] DB I, doc. 15

[14] ARNALDI, Berengario, p. 15

[15] DB I, doc. 22

[16] DB I, doc. 23

[17] DB I, doc. 26, 27, 28,30