I padri benedettini e la loro attività agricola in Saccisica. Prima parte: La presenza dei benedettini nella Saccisica

di Francesco G. B. Trolese

1.1 – Le origini delle proprietà monastiche

A differenza d’altre zone del Padovano la Saccisica è stata nel Medioevo, a parere di Andrea Gloria, un «territorio florido e popolato»[1]. Ne fa fede il diploma dell’897 con cui il re d’Italia Berengario donò l’intero territorio al suo arcicancelliere Pietro, vescovo di Padova, quando quell’area faceva parte del comitato trevigiano. In quella occasione il placito regale attribuì al vescovo la giurisdizione comitale, che comportava i diritti politici e giudiziari. Così il presule padovano divenne il signore del luogo[2]. Un potere mitigato da un intervento dell’imperatore Enrico III nel 1055, quando il vescovo fu richiamato al rispetto degli abitanti della Saccisica perchè veri uomini arimanni, vale a dire persone che fruivano della libertà imperiale[3]. Il vescovo di Padova faceva comunque valere il suo potere politico e giudiziario, come quando concesse ai monasteri il diritto di riscuotere la decima sui prodotti della terra di loro pertinenza e il fodro (imposta in natura da corrispondere al fisco regio) sui propri fondi agricoli. Ciò avvenne con i vescovi Sinibaldo, Bellino, Gerardo e altri, come si dirà oltre.

E’ naturale quindi che i monasteri padovani e veneziani mirassero ad acquisire delle proprietà in quell’area, posta tra il Cornio e il Brenta, già famosa nell’antichità per la grande resa dei prodotti agricoli, anche se aveva conosciuto nell’età tardo antica «un inselvatichimento generale del paesaggio agrario; l’abbandono totale o parziale di non pochi siti abitati»[4] a causa delle frequenti alluvioni dei fiumi e dei numerosi corsi d’acqua, che l’attraversavano. Quando i benedettini iniziarono ad estendervi le loro proprietà il paesaggio era quindi punteggiato, oltre che da terreni coltivati a seminativo e a prativo, da frequenti zone boschive, da acquitrini e da estese zone paludose.

La prima testimonianza sulla presenza di possedimenti benedettini nella Saccisica risale all’11 giugno dell’anno 781, quando l’abate di Sesto al Reghena ottenne da Carlo Magno il rinnovo della concessione dell’uso di beni del fisco regio, già attribuiti con ogni probabilità all’abbazia dal re longobardo Adelchi nel 762. Da essi l’abate ricavava un reddito annuo di cento staia di segale e di cinquanta maiali[5]. Un’altra precoce testimonianza si ha nell’anno 853, quando l’imperatore Ludovico II attribuì al monastero di San Zeno di Verona la proprietà della chiesa di Santa Maria e di San Tommaso di Sacco con i terreni di loro pertinenza[6]. Che l’abate del monastero veronese Austreberto seguisse le vicende delle lontane proprietà saccensi è provato dal fatto che il 12 settembre 895 egli concesse a livello per 29 anni a Leudeberto del fu Leone una terza porzione di un casale a Campolongo Maggiore, composto di casa, corte, orto, terre coltivate ad arativo, vigne, prati, pascoli, con l’impegno di lavorarle e di migliorarle[7]. Il suo successore Andelberto nell’ottobre 898 affittò per la durata di 19 anni a Luvolo di Agarisio, Domenandro, Sambolo e Orsolo quattro poderi coltivati a vite con case situate a Campolongo Maggiore[8].

La chiesa di San Tommaso apostolo di Corte (definita “abbacia”nel documento) che era dotata di case, masserie, servi (schiavi), ancelle (schiave), aldi e aldiane (servi e serve della gleba) fu oggetto di una permuta tra l’abate di San Zeno Leudiberto e il vescovo di Verona Milone, per cui dal giugno 969 essa passò in proprietà del vescovo veronese[9]. Tuttavia ancora nel 1163 la stessa chiesa è elencata come appartenente al monastero di San Zeno di Verona in un placito dell’imperatore Federico I Barbarossa [10].

Alla metà del secolo X il monastero femminile di San Zaccaria di Venezia estese i suoi possedimenti di terraferma anche nella Saccisica, ottenendo conferma dei passati diritti il 26 agosto 963 con un diploma emanato dall’imperatore Ottone I [11], ripetuto il 5 febbraio 997 dall’imperatore Ottone III[12].

Sul finire del millennio l’abbazia di San Giorgio Maggiore di Venezia poco dopo la sua fondazione (982) iniziò ad acquisire terreni a Rosara, Codevigo e Melara, beni che incrementò nei secoli successivi[13] espandendosi anche a Corte[14] e a Piove di Sacco[15]. Il cenobio veneziano incrementò il proprio patrimonio sia in forza di acquisti, sia in virtù di graziose donazioni di privati, come pure di munifiche elargizioni di vescovi padovani, come nel caso di Bellino che il 26 gennaio 1129 rinnovò al monastero il livello di due masserie a Codevigo, in precedenza concesse dal vescovo Sinibaldo[16]. Un acquisto rilevante di sette mansi a Codevigo, che si inscriveva in un preciso disegno di espansione fondiaria in terraferma, fu quello perfezionato il 27 ottobre 1188 nella casa domenicale di Roncaiette tra Pietro Bonizi e l’abate Leonardo di San Giorgio per la somma di 1.100 lire veneziane[17]. Gli stessi comuni di Melara e di Rosara vendettero in diverse occasioni ai monaci di San Giorgio terreni di propria ragione, preso l’assenso dei “boni homines” del luogo: ciò avvenne, ad esempio, 13 aprile 1154 a Rosara e Melara[18], il 21 maggio 1171 a Rosara[19], il 20 maggio 1188 a Melara e Rosara[20].

L’abbazia di San Nicolò del Lido ebbe in dono dal vescovo di Padova Olderico i primi 13 campi a Corte nella contrada San Nicolò il 2 giugno 1064, campi situati accanto ad un canale, alla via per Piove di Sacco e alle proprietà del ricco signore Bertaldo Capozoli[21]. Tale proprietà nei secoli successivi fu incrementata fino a dare origine ad una vera e propria corte con centinaia di campi di pertinenza[22]. Nel 1650 il patrimonio fondiario di San Nicolò nella Saccisica era costituito da 695 campi[23]. Il 30 dicembre 1152 il monastero ottenne dal vescovo padovano Giovanni Cacio il privilegio del fodro e del quartese sui terreni posseduti a Corte e a Codevigo, privilegi in precedenza concessi dai predecessori Sinibaldo e Bellino[24].

Anche il monastero di San Cipriano di Murano, legato al movimento cluniacense attraverso San Benedetto di Polirone, nel secolo XI estese le sue proprietà in quelle zone. Infatti il 15 giugno 1121 permutò un terreno a Rosara con l’abbazia di San Giorgio Maggiore. Gli appezzamenti scambiati comprendevano, tra l’altro, in un caso un fabbricato edificato e nell’altro un terreno edificabile ed erano confinanti con terreni già posseduti da entrambi gli enti[25].

San Cipriano ebbe anche a Corte delle proprietà come attestano documenti del 10 maggio, del 19 novembre 1118 e del 28 novembre 1126[26]. Il medesimo monastero accrebbe la sua presenza negli stessi anni anche ad Arzergrande[27], a Campolongo Maggiore[28], a Tognana[29], a Castello di Brenta[30]. I beni posseduti nella Saccisica dal monastero muranese a Campolongo Maggiore e ad Arzergrande ottennero pure dal vescovo Sinibaldo il 28 ottobre 1120 il privilegio dell’esenzione dalla corresponsione del fodro e dell’albegaria, cui fu aggiunto un ben definito diritto di giurisdizione sui propri sudditi[31].

Analoga esenzione al monastero muranese fu rinnovata dal vescovo Bellino il 15 marzo 1139, con estensione alla chiesa di San Leonardo di Conche, alla quale fu concesso di poter esercitare tutte le funzioni ecclesiastiche e di battezzare i fanciulli sia di Conche che di Fogolana, privando contestualmente tali poteri la chiesa di San Marco di Fogolana. Il vescovo aveva anche concesso il 23 settembre 1132 il diritto di decima su tutte le proprietà del cenobio situate a Conche, Fogolana, Arzergrande, Campolongo Maggiore, Corte e Calcinara, con l’unico obbligo di offrire ogni anno all’episcopio nel mese di agosto una libra di incenso in onore di Maria Vergine.[32] I privilegi concessi da Sinibaldo e Bellino al monastero di San Cipriano furono rinnovati dal vescovo Giovanni Cacio il 9 dicembre 1149[33].

L’abbazia di Santa Giustina a tempo dell’abate Olderico da Limena (1271-1289), già abate di Santa Maria in Organo di Verona[34], ottenne in enfiteusi dai monaci di San Cipriano l’isola di Calcinara, situata alla foce del Bacchiglione ai confini del territorio padovano. Nonostante che i terreni fossero soggetti a frequenti alluvioni li bonificarono e una parte li destinarono a salina. Il senato della città di Padova per non dipendere dal monopolio del sale di Venezia, chiesero nel 1300 all’abate Gualpertino Mussato di permutare il possesso di quel latifondo con analoghi terreni situati a Cona (2.320 campi), confinanti con le possessioni del monastero di Villadelbosco e Concadalbero, il che fu concesso[35]. Tale permuta non fu bene accolta dalla Repubblica di Venezia perché vedeva diminuire il valore e l’importanza delle proprie saline a Chioggia. Da quella controversia nacque una guerra confinaria, durata quattro anni, al termine della quale Padova fu costretta a demolire il battifredo, situato nei pressi di Brondolo, e la palata sulla laguna con la conseguente distruzione delle saline[36].

Tra il XII e il XIV secolo altri monasteri veneziani, forti di una discreta liquidità economica, incrementarono le loro proprietà nella Saccisica: in particolare San Lorenzo di Ammiana a Piove, Campagnola, Arzerello, Piovega, Ardoneghe[37]; San Daniele a Bosco di Sacco, Cambroso, Campolongo, Liettoli, Codevigo, Castelcaro, Piovega, Terranova di Pontelongo, Vallonga[38]; San Giovanni Evangelista di Torcello a Piove di Sacco, Vallonga, Concadalbero, Cambroso, Bovolenta, Legnaro e Sandon[39]; le benedettine dei Santi Secondo ed Erasmo a Piove di Sacco, Vigorovea, Brugine, Arzerello, Tognana, Campagnola e Arzergrande[40].

Anche il monastero di Sant’Angelo di Brondolo in diocesi di Chioggia, successivamente intitolato alla Ss.ma Trinità e a San Michele, s’insediò a Codevigo nel dicembre del 988 con la donazione da parte di Domenico del fu Roberto di due poderi di terreno arativi e boschivi[41]. Le proprietà di Brondolo con il passare del tempo si estesero a Rosara e Melara diventando così consistenti[42] che nel 1175 l’abate aveva ormai una sua “curia” a Codevigo, o meglio una vera e propria corte amministrativa, dove faceva affluire i raccolti del monastero[43]. La stesso avvenne per il monastero di San Giorgio di Fossone, situato alle foci del Brenta, che l’8 febbraio e il 19 agosto 1127 comperò due masserie a Piove di Sacco[44].

Un terzo monastero clodiense San Michele in Adige presso Cavarzere il 14 agosto del 1069 ebbe in dono dal conte Alberto del fu Ugo “pro anima sua mercede” la corte di Concadalbero, comprendente una chiesa dedicata a Maria Santissima, masserie, sedimi, case, vigne, prati, campi[45].

Corte benedettina

A partire dal secolo XI si fece impetuosa in Saccisica anche l’espansione fondiaria dei monasteri padovani. Infatti l’abbazia di Santa Giustina ricevette in dono dal vescovo Olderico il 30 marzo 1076 quasi metà del territorio di Legnaro con la palude “Memora”[46], includente una buona parte dei terreni che saranno pochi decenni dopo sottoposti ad un robusto intervento di bonifica. Se il monastero con tale elargizione ebbe considerevolmente incrementato il proprio patrimonio terriero, già esteso in virtù della precedente donazione del vescovo Gauslino (970)[47], tuttavia è con la vendita del giugno del 1129 dei coniugi Guido e Giuditta dei conti Sambonifacio all’abate Alberto della corte di Concadalbero (già come si è detto di pertinenza del monastero di San Michele all’Adige), che si assiste ad un imponente incremento delle sue proprietà nella Bassa Padovana; proprietà che in quell’area finirono per costituire un nucleo compatto delimitato dal fiume Vigenzone, dalla fossa delle Bebbe, dal fiume Retrone (Bacchiglione) e dall’Adige[48]. Tale acquisizione fu impreziosita per volontà del vescovo di Padova Bellino il 24 novembre 1131 con la concessione ai monaci del diritto di decima sull’intera proprietà.[49]

L’abbazia di Praglia dal suo canto giunse ad avere nel secolo XII la proprietà della chiesa campestre di Santa Maria di Bovolenta con una casa, un mulino e un sedime destinati al mantenimento del cappellano addetto[50], cui in prosieguo di tempo furono aggiunti altri 95 campi a Brugine e a Piove[51].

Le monache di San Pietro di Padova durante il governo dell’abbadessa Teofila ricevettero in dono l’8 settembre 1088 dal vescovo filoimperiale Milone cinque masserie ad Arzergrande, lavorate da altrettanti abitanti del luogo[52]. Donazione che fu ripetuta dal vescovo nel 1090[53] e confermata il 31 dicembre dello stesso anno dall’imperatore Enrico IV[54] e poi ancora ribadita dall’antipapa Clemente III prima all’abbadessa Teofila il 19 gennaio 1091[55] e quindi nel 1091 alla subentrante Alteburga[56]. In cambio di questi privilegi le monache erano tenute a pregare per il vescovo o per l’imperatore. Fatto questo che rivela come quel monastero fosse nettamente schierato con la parte imperiale[57] e contro il papa romano Gregorio VII, difensore delle prerogative pontificie e della libertà della Chiesa.

Durante il secolo XII secolo non solo si assiste all’incremento delle proprietà monastiche maschili e femminili, ma anche alla fondazione di alcuni monasteri nello stesso territorio della Saccisica, nella parte meno soggetta alle inondazioni e all’impaludamento. Mi riferisco ai monasteri dei Santi Vito e Modesto di Piove di Sacco, di Santa Maria del Tresone di Brusadure, di San Giovanni Battista di Pontelongo, di Santa Maria della Riviera, di Santa Margherita e di Sant’Agnese, situati questi tre ultimi nel territorio di Polverara, tutti aderenti alla congregazione benedettina padovana degli “Albi” di San Benedetto[58]. Tale congregazione fu fondata il 30 maggio 1224 in un periodo particolarmente felice per l’esperienza monastica padovana[59] dal priore di San Benedetto, Giordano Forzatè, e si ispirava nelle sue costituzioni alla “charta charitatis” dei cistercensi, istituiti nel 1075 nel monastero di Citeaux (Francia) [60]. Costoro privilegiavano, in campo religioso, un austero ascetismo nell’osservanza della Regola di san Benedetto, il distacco dal mondo, l’essenzialità delle celebrazioni liturgiche, la povertà nelle persone e negli edifici, il lavoro manuale praticato indistintamente da tutti i suoi componenti, ma in particolare una nuova classe di monaci, i conversi, i quali per merito della loro laboriosità assunsero un ruolo decisivo nella costruzione degli edifici conventuali e nell’economia dei singoli cenobi.

Le proprietà dei monasteri benedettini padovani nel territorio della Saccisica non erano limitate ai soli cenobi “albi”, ma annoveravano la presenza anche di altri monasteri in prevalenza femminili della città come, ad esempio, Sant’Agata in Vanzo, il cui cartulario trecentesco testimonia un vasto patrimonio fondiario esteso anche a Piove, a Polverara, a Vigorovea, a Campolongo Maggiore, a Liettoli, a Piovega, a Conselve[61]. Diversi di questi fondi confinavano con i possedimenti di altri cenobi padovani, come Santo Stefano, San Benedetto Vecchio, San Giacomo di Pontecorvo[62].

Pure le monache di Santa Maria di Saonara risultavano proprietarie nel XV secolo di una chiesa campestre, quella di Santa Maria di Righe a Corte, dove il custode ricavava il proprio reddito dai campi annessi alla chiesa[63].

In Saccisica estesero il loro patrimonio fondiario anche abbazie esterne al mondo veneto, come San Pietro di Modena e San Benedetto di Polirone (Mantova). Nel primo caso il conte Cono da Calaone in data 3 novembre 1097 fece una donazione al monastero modenese del priorato di San Michele di Candiana: il patrimonio fondiario da lui donato comprendeva non solo fondi attorno al cenobio, ma anche a Cona, a Pontecasale, a Pontelongo e a Vigonovo[64]. Invece l’abbazia di Polirone, che già teneva particolari legami con il priorato dipendente di San Cipriano di Murano influendo nella gestione dei suoi fondi agricoli, ricevette il 12 giugno 1109 da Adamo da Cortefolverto di Arzergrande una masseria a Tognana[65]. Qualche anno prima il 15 marzo 1107 il vescovo Sinibaldo aveva concesso alla stessa abbazia di poter costruire una chiesa a Conche dotata di fonte battesimale, e di edificarne un’altra alla Fogolana, subalterna a quella di Conche[66].

Questa ampia rievocazione delle origini delle proprietà dei monasteri benedettini era, a mio parere, necessaria per comprendere la varietà degli approcci ai problemi connessi con la conduzione agraria di tali proprietà, poiché ogni monastero, pur nel rispetto delle norme e delle consuetudini dettate dalle autorità civili, agiva in modo del tutto autonomo, non solidale con gli altri cenobi sia nella gestione dei beni sia nei rapporti con i contadini[67]. Solo in seguito alla creazione della congregazione di Santa Giustina (1419) – alla quale si unirono nel medesimo secolo i monasteri di Praglia, di San Giorgio Maggiore, di San Nicolò del Lido di Venezia e di San Benedetto di Polirone – si giunse ad avere un approccio unitario nell’organizzazione e nella gestione anche delle campagne possedute. I capitoli generali, celebrati con cadenza annuale, emanavano, infatti, oltre a decreti sull’applicazione della Regola di san Benedetto, anche disposizioni sulla gestione dei beni temporali, specie riguardo alla bonifica dei terreni, alla coltivazione dei campi, ai contratti agrari, legiferando conseguentemente sul modo di comportarsi verso i contadini, i gastaldi, i fattori e i numerosi braccianti agricoli[68] e concedendo anche ai più fedeli e capaci amministratori l’associazione ai beni spirituali della famiglia monastica con la concessione di“litterae gratiosae”[69]. E’ in seguito a questa importante riforma che i monasteri s’impegnarono ad affrontare radicalmente, mediante grossi impegni finanziari, la bonifica dei terreni paludosi di proprietà, in accordo con gli altri grandi possidenti, fossero essi nobili o religiosi, divenendo così di fatto membri dei consorzi nei rispettivi territori di competenza[70]. Per i terreni situati tra il Bacchiglione e il Gorzone l’abbazia di Santa Giustina assunse nella gestione consortile un ruolo prevalente, sia per le somme impegnate sia per la vastità del territorio di sua pertinenza. Tutto ciò durò fino alla confisca dei patrimoni agricoli decretata da Napoleone nel 1806.

 

1.2 – Il territorio che hanno trovato

L’ambiente incontrato dai monaci al momento del loro insediamento nella Saccisica fu assai vario. Quando la donazione, o l’acquisto, era limitato a qualche manso (all’incirca 20 campi) l’arativo, intercalato da filari di viti, era prevalente. Quando invece la dimensione dei terreni acquistati superava il centinaio di campi il terreno coltivabile era punteggiato da frequenti e folte macchie di boschi cedui, oltre che da terre soggette all’impaludamento, specie durante la stagione delle piogge.

Nei paesi della gronda lagunare, o nelle terre prospicienti il mare Adriatico, le valli da pesca erano assai estese, in quanto la quota altimetrica dei terreni era inferiore al livello del mare. D’altronde tutta la Saccisica è sempre stata idrograficamente assai tormentata, a causa di alluvioni ed esondazioni dei suoi numerosi corsi d’acqua, condizionati a loro volta dalle non infrequenti uscite dagli alvei dei più importanti fiumi che ne delimitavano i confini, o ne attraversavano, il territorio: l’Adige, il Brenta, il Bacchiglione, il Gorzone. Il disordine idraulico era stato causato fin dalla tarda antichità non solo dall’incuria degli uomini, ma anche dalla «tendenza dei Padovani a manipolare il fiume [Brenta] in funzione delle proprie esigenze difensive, commerciali e agricole, senza alcun riguardo per le alterazioni che ne derivavano nelle aree deltizie e nella laguna veneta»; dai «tentativi dei Veneziani di impedire che il deflusso incontrollato dei detriti compromettesse i già fragili equilibri terracquei del ducato»[71].

La popolazione residente, per ovviare a questo stato di cose, si era sempre dedicata a regimentare il deflusso delle acque mediante lo scavo di fossi interpoderali, di canali di scolo interessanti una pluralità di proprietari. Nel 1199 a Piove di Sacco esisteva, tra i tanti, un fossato consortile (“fovea consortum”), non solo per delimitare gli ovvii confini di proprietà, ma anche per prosciugare i terreni agricoli[72]. Un caso di regolamentazione delle acque può essere considerato anche l’intervento effettuato il 6 gennaio 1197 dal vescovo di Padova, Gerardo Offreducci, per la composizione di una lite aperta tra gli abati Domenico di Santa Giustina, Giovanni di San Michele di Candiana e il signore Alberto da Baone sullo scavo, l’apertura e la chiusura di fosse nel territorio di Villadelbosco e di Desman[73]. Accordo che ebbe un riscontro a Concadalbero il 30 luglio 1226 poiché a quella data era operante un fossato consortile (“fovea consorcium”) sia come limite confinario sia in funzione di prosciugamento dei terreni[74].

Un grosso impegno di mutamento dell’esistente paesaggio agricolo lo si può rilevare nei secoli XII e XIII a Legnaro quando i benedettini di Santa Giustina, poco dopo l’acquisizione delle campagne, procedettero al disboscamento dei terreni e alla loro bonifica mediante lo scavo di fossi e di canali che facevano defluire le acque verso il Fiumicello. Un’operazione che ha lasciato traccia negli stessi toponimi del luogo[75].

A Rosara e Melara nel territorio di Codevigo ancora nel 1188 oltre all’ampio terreno messo a cultura esistevano terreni in cui le essenze arboree avevano la prevalenza sul coltivo; in quel anno infatti il cittadino Baffo, abitante nel suburbio di Santa Sofia di Padova, rinunciò a sei appezzamenti di terreno boschivo in favore del monastero di san Giorgio Maggiore dal quale precedentemente li aveva avuti in uso[76].

* Devo un cordiale ringraziamento all’amico dott. Giannino Carraro per l’attenta lettura e revisione del testo.

NOTE

[1] Codice diplomatico padovano dal secolo Sesto a tutto l’Undecimo, I (d’ora in poi CDP, I), a cura di A. Gloria, Venezia 1877 (Monumenti storici pubblicati dall r. Deputazione veneta di storia patria), p. LIII, LXII.
[2] CDP, I, n° 18 p. 34-35; sul valore di quel diploma sovrano si veda: G. Rippe, Padoue et son contado (Xe-XIIIe siècle. Société et pouvoirs, Rome 2003 (Bibliothèque des écoles françaises d’Athènes et de Rome, 317), p. 109-112.

[3] CDP, I, n° 173 p. 205-206; sul significato del condizione di essere arimanno nella Saccisica si veda: Rippe, Padoue et son contado, p. 161-194.

[4] S. Bortolami, Arzergrande e Vallonga: due villaggi della Saccisica nel medioevo, in Arzergrande e Vallonga. La memoria storica di due comunità, a cura di G. Rosada, Treviso 2003.

[5] G. Spinelli, Origine e primi sviluppi della fondazione monastica sestense (762-967), in L’abbazia di Santa Maria di Sesto fra archeologia e storia, I, a cura di G. C. Menis – A. Tilatti, Fiume Veneto 1999, p. 110.

[6] Codice diplomatico veronese dalla caduta dell’impero romano alla fine del periodo carolingio, a cura di V. Fainelli, I, Venezia 1940 (Monumenti storici pubblicati dall r. Deputazione di storia patria per le Venezie. Nuova serie, I), n° 190 p. 287-291.

[7] CDP, I, n° 17 p. 33-34; sulla presenza di poderi monastici a Campolongo si veda: A. L. Coccato, Campolongo Maggiore. Profilo storico di una comunità, Bojon (Venezia) 1991, p. 33-41.

[8] CDP, I, n° 20 p. 36-37.

[9] CDP, I, n° 52 p. 76-78; per un approfondimento sul significato di Curtis Castrum relativo in parte al villaggio Corte si veda: Rippe, Padoue et son contado, p. 288-294, 299-301.

[10] Codice diplomatico padovano dall’anno 1101 alla pace di Costanza (25 giugno 1183), II (d’ora in poi CDP, II), a cura di A. Gloria, Venezia 1879-1881 (Monumenti storici pubblicati dall r. Deputazione veneta di storia patria, IV, VII. Serie prima, Documenti, IV, VI), n° 834 p. 112-113.

[11] CDP, I, n° 46 p. 68-69.

[12] CDP, I, n° 77 p. 110-111

[13] S. Giorgio Maggiore, vol. II, Documenti 982-1159, a cura di L. Lanfranchi, Venezia 1968 (Fonti per la storia di Venezia. Sez. II, Archivi ecclesiastici. Diocesi Castellana), (d’ora in poi S. Giorgio, II), n° 2 p. 26-27, n° 4 p. 30-32, n° 9 p. 41-43, n° 12 p. 48-50.

[14] CDP, II, n° 59 p. 47-47; S. Giorgio, II, n° 103 p. 235-237.

[15] S. Giorgio, II, n° 192 p. 398-399, n° 193 p. 399-402.

[16] CDP, II, n° 184 p. 147-148.

[17] S. Giorgio Maggiore, vol. III, Documenti 1160-1199 e notizie di documenti, a cura di L. Lanfranchi, Venezia 1968 (Fonti per la storia di Venezia. Sez. II, Archivi ecclesiastici. Diocesi Castellana), (d’ora in poi S. Giorgio, III) n° 503 p. 298-301.

[18] CDP, II, n° 612 p. 438; S. Giorgio, II, n° 265 p. 519-520; sull’evoluzione dei due comuni di Rosara e Melara, dove il primo assorbe il secondo si veda: Rippe, Padoue et son contado, p. 280.

[19] CDP, II, n ° 1030 p. 225.

[20] S. Giorgio, III, n° 493 p. 286-287.

[21] CDP, I, n° 205 p. 234; sulla presenza dei monaci a Corte e sui possedimenti della famiglia Capozoli in ascesa nella società del tempo si veda: M. Bolzonella, Corte, un villaggio della Saccisica nel Medioevo, in Corte bona et optima villa del Padovano, a cura di R. Zannato, Piove di Sacco 2007, p. 45-83, 57-63.

[22] Nel 1558 i campi gravitanti sulla corte di via Righe erano 365: C. Grandis, Casa Coccato (ex Gusa) di via Righe, in Corte bona et optima, p. 235.

[23] G. Mazzucco, Lo stato economico dei due monasteri cassinesi veneziani al tempo dell’inchiesta di papa Innocenzo X, «Benedictina», 40 (1993), p. 345-378, 358.

[24] CDP, II, n° 577 e n° 578 p. 416-418: i documenti di conferma del vescovo Giovanni Cacio sono datati 30 dicembre 1152; sull’uso del potere di fodro si veda: Rippe, Padoue et son contado, p. 312-313.

[25] CDP, II, n° 119 p. 97-98; S. Giorgio, II, n° 126 p. 277-279.

[26] CDP, II, n° 100 p. 82, n° 103 p. 84, n° 171 p. 138. I beni del monastero di San Cipriano di Murano, passarono alla sua soppressione in dotazione al Seminario di Venezia, per cui i suoi più antichi documenti si conservano nell’Archivio patriarcale veneziano.

[27] CDP, II, n° 106 p. 86, n° 114 p. 93.

[28] CDP, II, n° 110 p. 90.

[29] CDP, II, n° 118 p. 97.

[30] CDP, II, n° 128 p. 104-105, n° 130 p. 106.

[31] CDP, II, n° 116 p. 94-95; Rippe, Padoue et son contado, p. 308, 312-313.

[32] CDP, II, n° 241 p. 189-190; n° 361 p. 275-276. Un elenco di coloni soggetti al monastero e delle terre possedute nella Saccisica a metà del XII secolo si trova in CDP, II, ni 528 – 529 p. 385-386.

[33] CDP, II, n° 524 p. 362.

[34] Sul governo esercitato dall’abate Olderico nel monastero veronese di Santa Maria in Organo (1255-1271), prima di assumere la direzione dell’abbazia di Santa Giustina (1271-1289), si veda: G. M. Varanini, Monasteri e città nel Duecento: Verona e S. Zeno, in Il Liber feudorum di S. Zeno di Verona (Sec. XIII), a cura di F. Scartozzoni, saggi introduttivi di G. M. Varanini, Padova 1996 (Fonti per la storia della terraferma veneta, 10), p. LXVII-LXXII; sull’importanza delle sue iniziative in Santa Giustina si veda L. Casazza, .

[35] Bandelloni – Zecchin, I benedettini di Santa Giustina, p. 29-30.

[36] I. Cavacius, Historiarum coenobii D. Iustinae Patavinae libris sex, Venetiis 1606, p. 124-129; A. Simioni, Storia di Padova dalle origini alla fine del secolo XVIII, Padova 1968, p. 331-332.

[37] S. Lorenzo, a cura di F. Gaeta, Venezia 1959 (Fonti per la storia di Venezia, sez. II Archivi ecclesiastici. Diocesi Castellana), p. XXV-XXVIII.

[38] Benedettini in S. Daniele, a cura di E. Santschi, Venezia 1989 (Fonti per la storia di Venezia, sez. II Archivi ecclesiastici. Diocesi Castellana), p. XLII-XLIII.

[39] S. Giovanni Ev. di Torcello, a cura di L. Lanfranchi, Venezia 1948 (Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia. Sezione II, Archivi ecclesiastici. Diocesi Torcellana), p. XI; n° 98 p. 138-142.

[40] Ss. Secondo ed Erasmo, a cura di E. Malipiero Ucropina, Venezia 1958 (Comitato per la pubblicazione delle fonti relative alla storia di Venezia. Sezione II, Archivi ecclesiastici. Diocesi Castellana), p. XIV-XV; n° 16 p. 31-32.

[41] CDP, I, n° 72 p. 105-106.

[42] S. Giorgio, II, n° 2 p. 26-27, n° 13 p. 50-52, n° 36 p. 106-108.

[43] CDP, II, n° 1170 p. 306.

[44] CDP, II, n° 175 p. 141, n° 180 p. 145-146.

[45] CDP, I, n° 205 p. 234.

[46] CDP, I, n° 229 p. 255-257; Il Catastico verde del monastero di S. Giustina di Padova, a cura di L. Casazza. Saggi introduttivi di L. Casazza, F. G. B. Trolese, Roma 2008 (Fonti per la storia della terraferma veneta, 26),. n° 7 p. 17-18.

[47] Il Catastico verde del monastero di S. Giustina, ni 45-47 p.100-108; Rippe, Padoue et son contado, p. 823-826.

[48] CDP, II, ni 187-189 p. 150-152.

[49] CDP, II, n° 227 p. 179.

[50] C. Carpanese, La chiesa campestre di S. Maria di Bovolenta, in L’abbazia di Santa Maria di Praglia, a cura di C. Carpanese e F. G. B. Trolese, Milano 1985, p. 75.

[51] ASP, S. Maria di Praglia, 42 (l’intero tomo è relativo alle proprietà di Brugine).

[52] CDP, I, n° 295 p. 318-320.

[53] CDP, I, n° 302 p. 325-327.

[54] CDP, I, n° 305 p. 330-331.

[55] CDP, I, n° 308 p. 333-334.

[56] CDP, I, n° 306 p. 331-332.

[57] Lo stesso Enrico IV prese sotto la sua protezione il monastero di San Pietro nel 1095, al tempo del vescovo Burcardo: CDP, I, n° 312 p. 336-337.

[58] Monasticon Italiae. IV. Tre Venezie, Fascicolo I. Diocesi di Padova, a cura di G. Carraro, Cesena 2001, p. 78 sch. 74, p. 54 sch.10, p. 78-79 sch. 75-78.

[59] S. Bortolami, Il monachesimo della Marca trevigiana e veronese in età comunale. Un modello in cerca di omologhi, in Il monachesimo italiano nell’età comunale. Atti del Convegno di Studi storici sull’Italia benedettina, Abbazia di S. Giacomo Maggiore, Pontida (Bergamo), 3-6 settembre 1995, a cura di F. G. B. Trolese, Cesena 1998 (Italia benedettina, 16), p. 367-401, 386.

[60] G. Carraro, I monaci albi di S. Benedetto di Padova, in Il monachesimo italiano nell’età comunale, p. 403-432.

[61] Il «Liber» di S. Agata (1304), a cura di G. Carraro, nota diplomatica di G. G. Fissore, Padova 1997 (Fonti per la storia della Terraferma veneta, 11), p. 67-81, 81-83, 55-66, 85-96.

[62] Ibid., ad indicem.

[63] C. Babolin – C. Grandis, La chiesetta di Santa Maria di Righe, in Corte bona et optima, p. 171-183.

[64] CDP, I, n° 326 p. 348-349; P. Sambin, Documenti inediti dei monasteri benedettini padovani (1183-1237). 1. – S. Michele di Candiana, Padova 1961; Monasticon Italiae. IV. Tre Venezie, Fascicolo I, p. 55 sch. 12.

[65] CDP, II, n° 43 p. 35-36.

[66] CDP, II, n° 33 p. 27-28; n° 372 p. 283-284; n° 373 p. 285.

[67] Cfr. Sull’atteggiamento assunto dal cenobio di San Giorgio Maggiore alla metà del XIII nei riguardi dei coloni dopo le distruzioni apportate a Codevigo dalla guerra per la liberazione di Padova dal dominio ezzeliniano si veda: Rippe, Padoue et son contado, p. 826-841.

[68] Cfr. G. De Sandre Gasparini, Contadini, chiesa, confraternita in un paese veneto di bonifica. Villa del Bosco nel Quattrocento, Verona 1987, p. 91-94.

[69] Cfr. F. G. B. Trolese, L’abate Bartolomeo da Verona unisce il monastero di San Nicolò del Lido alla congregazione “De unitate” (1423), in Monastica et humanistica. Scritti in onore di Gregorio Penco O.S.B., a cura di Id., Cesena 2003 (Italia benedettina, 21), p. 245-271; Id., Aspetti e problemi sull’introduzione della riforma della congregazione di Santa Giustina in San Benedetto di Polirone, in Polirone nella congregazione di Santa Giustina di Padova (1420-1506), a cura di Id. – P. Golinelli, Bologna 2007 (Il mondo medievale. Sezione di storia medievale dell’Italia padana, 14), p. 9-37.

[70] Sull’impegno di bonifica dei monasteri della congregazione di S. Giustina si vedano: A. Stella, La proprietà ecclesiastica nella Repubblica di Venezia dal secolo XV al XVII (Lineamenti di una ricerca economico-politica), «Nuova rivista storica», 42 (1958), p. 56-73; M. Vaini, L’economia del monastero e della prepositura di S. Benedetto nel Quattrocento, in Polirone nella congregazione di Santa Giustina, p. 67-89.

[71] Bortolami, Arzergrande e Vallonga, p. 54.

[72] S. Lorenzo, n° 56 p. 94; sul significato di fossa vi veda: Rippe, Padoue et son contado, p. 528-532.

[73] Sambin, Documenti inediti, n° 10 p. 19-21; sulla bonifica nel territorio di Correzzola si veda: E. Bandelloni – F. Zecchin, I benedettini di Santa Giustina nel basso Padovano. Bonifiche, agricoltura e architettura rurale, Padova 1979, p. 18-28.

[74] Il Catastico verde del monastero di S. Giustina, n° 43 p. 90.

[75] S. Bortolami, Corti e granze benedettine nel Medioevo: alle origini di una storia di lunga durata, in La corte benedettina di Legnaro. Vicende, struttura, restauri, a cura di M. Vita e F. G. B. Trolese, Venezia – Legnaro 2001, p. 24-25.

[76] S. Giorgio, III, n° 492 p. 285-286.