La cucina della nobiltà e dell’alta borghesia siciliana ottocentesca, come la descrive opulentemente Tommasi di Lampedusa nel suo famosissimo romanzo, Il Gattopardo, era il risultato della raffinatezza della cucina francese importata. Nelle famiglie nobili sicule era segno di distinzione avere in cucina il monsù, voce contratta nell’ idioma dialettale, che indicava il monsieur-cuoco francese.
In fondo ritornava indietro dalla Francia la rielaborazione della cultura e della cucina importata da Caterina De Medici quando andò sposa nel 1533 ad Enrico di Valois, futuro re Enrico II. Caterina, era figlia di Lorenzo II de’ Medici, bisnipote di Lorenzo il Magnifico e pronipote di papa Leone X ed era cresciuta in una delle corti più colte e ricche d’Italia. Nel suo andare a Parigi, appena quattordicenne, portò seco, oltre alla governante, alcuni pasticceri e delle cuoche del suo Mugello, un gelataio di Urbino e molto altro ancora, inclusi ricette, vitigni, aromi e profumi, saperi e sapori della sua cucina toscana .
Tratto da: Giuseppe Tommasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Universale Economica Feltrinelli, 1963
Alla fine del pranzo venne servita la gelatina al rhum. Questo era il dolce preferito di don Fabrizio e la Principessa, riconoscente delle consolazioni ricevute, aveva avuto cura di ordinarlo la mattina di buon’ora. Si presentava minacciosa, con quella sua forma di torrione appoggiato su bastioni e scarpate, dalle pareti lisce e scivolose impossibili da scalare, presidiata da una guarnigione rossa e verde di ciliegie e di pistacchi; era però trasparente e tremolante e il cucchiaio vi si affondava con stupefacente agio. Quando la roccaforte ambrata giunse a Francesco Paolo, il ragazzo sedicenne ultimo servito, essa non consisteva piú che di spalti cannoneggiati e di blocchi divelti. Esilarato dall’aroma del liquore e dal gusto delicato della guarnigione multicolore, il Principe se la era goduta assistendo allo smantellamento della fosca rocca sotto l’assalto degli appetiti. Uno dei suoi bicchieri era rimasto a metà pieno di marsala; egli lo alzò, guardò in giro la famiglia fissandosi un attimo piú a lungo sugli occhi azzurri di Concetta “alla salute del nostro caro Tancredi” disse. Bevve il vino di un solo sorso. Le cifre F.D. che prima si erano distaccate ben nette sul colore dorato del bicchiere pieno non si videro più. Pag.34
Il Principe aveva sempre badato a che il primo pranzo a Donnafugata rivestisse un carattere solenne: i figlioli sotto i quindici anni erano esclusi dalla tavola, venivano serviti vini francesi, vi era il poncio alla romana prima dell’arrosto; e i domestici erano in cipria e polpe. Su di un solo particolare transigeva: non si metteva in abito da sera, per non imbarazzare gli ospiti che, evidentemente, non ne possedevano. Quella sera, nel salone detto “di Leopoldo” la famiglia Salina aspettava gli ultimi invitati. Pag.53
Il Principe era troppo sperimentato per offrire a degli invitati siciliani, in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto piú facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. Ma le informazioni sulla barbarica usanza forestiera di servire una brodaglia come primo piatto erano giunte con troppa insistenza ai maggiorenti di Donnafugata perché un residuo timore non palpitasse in loro all’inizio di ognuno di quei pranzi solenni. Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteva un torreggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti invitati si astennero dal manifestare una lieta sorpresa: il Principe e la Principessa perché se l’aspettavano, Angelica per affettazione e Concetta per mancanza di appetito. Tutti gli altri (Tancredi compreso, rincresce dirlo) manifestarono il loro sollievo in modi diversi, che andavano dai flautati grugniti estatici del notaio allo strilletto acuto di Francesco Paolo. Lo sguardo circolare minaccioso del padrone di casa troncò del resto subito queste manifestazioni indecorose.
Buone creanze a parte, però, l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava, non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta; ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.
L’inizio del pasto fu, come avviene sempre in provincia, raccolto. L’Arciprete si fece il segno della croce, e si lanciò a capofitto senza dir parola. L’organista assorbiva la succolenza del cibo ad occhi chiusi: era grato al Creatore che la propria abilità nel fulminare lepri e beccacce gli procurasse talvolta simili estasi, e pensava che col solo valore di uno di quei timballi lui e Teresina avrebbero campato un mese; Angelica, la bella Angelica, dimenticò i migliaccini toscani e parte deIle proprie buone maniere e divorò con l’appetito dei suoi diciassette anni e col vigore che la forchetta tenuta a metà dell’impugnatura le conferiva. Tancredi, tentando di unire la galanteria alla gola, si provava a vagheggiare il sapore dei baci di Angelica, sua vicina, nel gusto delle forchettate aromatiche, ma si accorse che l’esperimento era disgustoso e lo sospese, riservandosi di risuscitare queste fantasie al momento del dolce; il principe, benché rapito nella contemplazione di Angelica che gli stava di fronte, ebbe modo di notare, unico a tavola, che la demi-glace era troppo carica, e si ripromise di dirlo al cuoco l’indomani; gli altri mangiavano senza pensare a nulla, e non sapevano che il cibo sembrava loro tanto squisito perché un’aura sensuale era penetrata nella casa. Pagg.56 e segg.
Angelica eccitata dalle luci, dal cibo, dallo chablis, dall’evidente consenso che essa trovava in tutti i maschi attorno alla tavola, aveva chiesto a Tancredi di narrarle alcuni episodi dei “gloriosi fatti d’arme” di Palermo. Pag. 38.
A dieci passi indietro lo seguiva un domestico che reggeva una cesta infiocchettata, contenente una decina di pesche gialline con le guancette rosse. Pag. 63.
…degustavano la dolce “insòlia“, quell’uva tanto brutta da vedere quanto buona da mangiare; saziarono larghe fette di pane la fame dei bracchi che stavano di fronte a loro, impassibili uscieri concentrati nella riscossione dei propri crediti. Pag. 72.
Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e lev accoltellate nostre, desiderio di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che volesse scrutare gli enigmi del nirvana. Pag. 122.
Le lunghe visite al palazzo di Donnafugata avevano insegnato molto ad Angelica, e così quella sera ammirò ogni arazzo, ma disse che quelli di palazzo Pitti avevano le bordure più belle; lodò una Madonna del Dolci, ma fece ricordare che quella del Granduca aveva una malinconia meglio espressa; e financo della fetta di torta che un premuroso giovin signore le portò, disse che era eccellente, buona quasi come quella di Monsù Gaston, il cuoco dei Salina. Pag.148.
Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi di “dolci di riposto” mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables à thé dei grandi balli : coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud- froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei forni aveva dorato, le beccacce disossate recline su tumuli di crostoni ambrati decorati delle loro stesse viscere triturate, i pasticci di fegato grasso rosei sotto la corazza di gelatina; le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli colorate delizie; all’estremità della tavola, due monumentali zuppiere d’argento contenevano il consommé, ambra bruciata e limpido. I cuochi delle vaste cucine avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena.
Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stomaci del mio per tutto questo.”
Disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra luccicante di cristalli ed argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Lì immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte-Bianco nevosi di panna; beignets Dauphine che le mandorle screziavano di bianco ed i pistacchi di verdino; collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni grasse come l’humus della piana di Catania dalla quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri esse provenivano, parfaits rosei, parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e “trionfi della Gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche ‘paste delle Vergini.” Di queste Don Fabrizio si fece dare due e tenendole nel piatto sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esibente i propri seni recisi. ‘Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I “Trionfi della Gola” (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!”
Nella sala odorosa di vaniglia, di vino, di cipria, don Fabrizio errava alla ricerca di un posto.
…Mentre degustava la raffinata mescolanza di biancomangiare, pistacchio e cannella racchiusa nei dolci che aveva scelti, don Fabrizio conversava con Pallavicino e si accorgeva che questi, al di là della frasi zuccherose riservate forse alle signore, era tutt’altro che un imbecille. Pag.156-157
Un cameriere passava: don Fabrizio disse che gli portasse una fetta di Monte Bianco e un bicchiere di champagne. “E lei, colonnello, non prende, niente? “Niente da mangiare, grazie. Forse anch’io una coppa di champagne”. Pag. 159.