di Giorgio Meneghetti
È necessario il tempo per creare i luoghi, questa affermazione di David Lowentahl (1), uno dei maggiori studiosi delle tematiche inerenti il paesaggio, ci fa riflettere sulla profonda e inscindibile connessione che esiste tra lo scorrere del tempo e la progressiva modificazione dei luoghi in cui viviamo e ci fornisce nello stesso tempo una traccia importante per l’argomento che si vuole qui di seguito affrontare.
Per poter capire che cosa sia e cosa rappresenti il paesaggio della Saccisica è necessario quindi esaminare e approfondire la storia di questa area.
In questo contesto, di per sé vastissimo, il presente contributo si soffermerà su un tema particolare, vale a dire quello legato alla percezione delle interazioni tra le opere dell’uomo e gli aspetti naturali del territorio, rapporto, quasi sempre conflittuale, che la progressiva antropizzazione dell’ambiente ha reso sempre più critico nel corso dei secoli.
Se questo vale in senso generale, è da rimarcare come gli specifici caratteri geografici e geologici della nostra Saccisica, abbiano di fatto generato qui un impatto paesaggistico omogeneo e originale.
Caratteri le cui peculiarità, al di là di fredde analisi tecnico-scientifiche, sono intensamente resi da Camillo Semenzato nel suo volume “Immagini della Provincia di Padova“ nella descrizione che ci offre del piovese:
Ai margini orientali il territorio padovano scivola lentamente verso il mare. Qui i fiumi su fanno più dritti e lenti e i canali che si moltiplicano rivelano la fatica di far defluire le acque. Poi in mezzo ad una pianura sempre più nuova le carreggiate s’arrestano ai bordi dell’acqua. È il confine indistinto col mondo delle lagune, di qui la campagna che tenta ancora di organizzarsi negli ultimi lembi, di là lo specchio trionfante e penetrante delle acque. Di qui i contadini, di là i pescatori (2).
Ed ecco quindi delinearsi il tema fondamentale che ha da sempre segnato il divenire del paesaggio della Saccisica; il tempo che scandisce i ritmi nelle nostre zone è il tempo delle acque, del rapporto quasi simbiotico tra i corsi d’acqua e quegli elementi dell’ambiente che gli abitanti hanno costruito, per organizzare al meglio la loro vita economica e sociale.
Ogni processo di trasformazione territoriale e paesaggistica non è ovviamente lineare, dipendendo in misura notevole dal livello degli strumenti tecnici, dalle tecnologie disponibili e dalla situazione economica e sociale che hanno caratterizzato i vari periodi della nostra storia.
Appare quindi consequenziale il fatto che, in realtà, fino all’Ottocento non vi fossero stati interventi antropici distruttivi di grande rilevanza che interessassero le nostre zone, se non gli innumerevoli episodi, peraltro ancora ben riconoscibili, che hanno segnato la secolare lotta dei nostri avi per strappare, prima, risanare e difendere, poi, le terre dall’intrusione delle acque.
Le strategie e le risorse messe in campo soprattutto dai veneziani per tali scopi sono sicuramente note e ampiamente studiate.
Alla luce di queste premesse e relativamente al tema che ci siamo proposti di sviluppare, possiamo considerare quindi il quadro paesaggistico della Saccisica, prima del secolo XIX, sostanzialmente assestato e in equilibrio tra i valori naturali e il “valore“ della terra: la rete dei corsi d’acqua è delineata nelle sue direttrici principali, pur se ancora aperta a integrazioni e rettifiche dettate dalle necessità di sicurezza idraulica; appare ben definita la rete viaria, basata sulle antiche orditure delle strade romane; si consolidano i principali aggregati abitativi e l’utilizzo dei grandi fondi agricoli, allargati dalle operazioni di bonifica.
In questa fase storica, quindi, non si erano ancora affacciate all’orizzonte quelle spinte demografiche e quelle innovazioni economico-produttive che, nel giro di due secoli porteranno a cambiare radicalmente la percezione e la fruizione del nostro ambiente.
L’Ottocento è il periodo che pone le basi per l’inizio delle grandi trasformazioni (soprattutto infrastrutturali e urbanistiche) che verranno poi effettuate a cavallo del novecento e che porteranno all’indiscriminato consumo del territorio proprio degli ultimi cinquanta anni.
Ma come era la situazione della Saccisica in questo periodo, dal punto di vista della percezione paesaggistica di un territorio che si poteva considerare ancora integro nelle sue componenti fondamentali?
Un utile quadro della situazione nella prima metà del secolo XIX può essere fornita dall’esame di alcune cartografie che a partire dall’inizio dell’Ottocento rappresentano in modo tecnico-descrittivo, sulla base di mappe rilevate in modo accurato, le varie proprietà immobiliari, la cui effettiva consistenza patrimoniale veniva poi richiamata in particolari, dettagliati registri contenenti la descrizione dei beni.
Questi documenti, comunemente identificati come catasti storici, ci restituiscono quindi una sorta di inventario dei principali elementi naturali e artificiali che connotano un territorio e ci consentono di interpretarne anche la realtà paesaggistica.
L’aspetto più interessante di tali strumenti, ove non ci si voglia soffermare su analisi sulla struttura delle proprietà o di puntuali verifiche di assi ereditari, deriva dalla constatazione che le mappe, pur con le limitazioni di una rappresentazione bidimensionale (edifici e rilievi sono appiattiti in una restituzione tecnica di tipo zenitale) comprendono tutto il territorio nel suo insieme e non più solo le limitate porzioni di area oggetto di parziali rappresentazioni, realizzate nei secoli precedenti per motivi contingenti, per lo più funzionali a risolvere problemi (di confini, di derivazioni di acque; testamentali; di dote matrimoniale, ecc.) specifici, che necessitavano di restituzioni più descrittive.
Case, strade, corsi d’acqua, proprietà, tipo di colture, emergenze architettoniche e ambientali, tutto è esattamente riprodotto in scala in singoli fogli e sovrapponibile, volendo, alle moderne mappa catastali, consentendo così, con un facile gioco, un immediato, rigoroso, viaggio nel tempo.
Ma, più che esaminare i catasti storici canonici (quello detto “Napoleonico” risalente al 1809; quello detto “Austriaco”, risalente al 1831, e quello detto “Austro-italiano, del 1853) è più interessante per noi prendere in considerazione una grande mappa acquarellata dell’intero territorio della Saccisica, databile al 1880 c.a., conservata presso Palazzo Jappelli a Piove di Sacco, che, pur mantenendo una impostazione di tipo catastale (vi si riportano infatti le partizioni delle proprietà) appare più focalizzata sulla descrizione complessiva della realtà territoriale del tempo.
Con un unico colpo d’occhio si possono così cogliere tutti quegli elementi del paesaggio che risultano ancora più significativi se visti in relazione alle altre indicazioni tecniche, quali la parcellizzazione fondiaria; la consistenza dei centri abitati più o meno importanti; i tracciati delle vie di comunicazione; il complesso sistema delle acque, che da sempre hanno caratterizzato la vita delle nostre genti.
Ecco, dunque, evidenziarsi singolari realtà abitative che sembra arduo definire urbane secondo la cognizione del termine che abbiamo oggi; il rapporto tra città e campagna, evidente a Piove di Sacco – con il suo centro storico ben strutturato e sedimentato, i suoi limiti fortificati e i suoi borghi e le sue emergenze architettoniche – è molto più etereo per gli altri centri della Saccisica, spesso segnalati più che altro dalla presenza della chiesa o semplicemente richiamati da un toponimo.
E ancora, i piccoli agglomerati di case in corrispondenza di particolarità infrastrutturali (ponti, incroci) o funzionali (aziende agricole); le edificazioni sparse in campagna che si inseriscono armonicamente in partizioni particellari caratteristiche, soprattutto in corrispondenza delle aree bonificate; le emergenze architettoniche di pregio isolate nel territorio (peraltro rare in quanto la presenza nobiliare presso il nostro territorio è sempre stata limitata, a favore di più frammentate proprietà ecclesiastiche); le grandi e piccole opere idrauliche che contrassegnano la continua lotta delle nostre genti per difendersi dalle acque e per strappare terreno coltivabile alle paludi.
Nell’analizzare questi “segni” appare evidente, innanzitutto, l’importanza del centro di Piove di Sacco, nel suo ruolo di storico capoluogo nell’ambito del territorio della Saccisica.
Già ad una prima analisi visiva della cartografia risaltano le sue peculiarità: è l’unico centro abitato di una certa consistenza; è l’unico che mostra il suo ruolo di luogo forte con funzione di difesa e di rifugio per gli abitanti della zona; è il nodo distributivo per tutti i percorsi di importanza territoriale (di genesi romana) che solcano la Saccisica.
Piove di Sacco esibisce già nell’Ottocento una densa edificazione a cortina lungo gli assi principali di penetrazione dell’abitato.
Assi che sono caratterizzati dalla presenza di ampi e continui porticati, forte segnale gerarchico delle vie dove la suddivisione immobiliare (in sequenza di lunghe e strette particelle adiacenti) denuncia chiaramente la presenza di tipologie costruttive legate ad una precisa funzionalità commerciale del piano terra.
Gli spazi compresi tra queste vie principali e il limite costituito dal vallo appaiono praticamente vuoti: a nord-ovest l’area del castello con il fossato che si allarga fino a formare una peschiera; verso sud est gli ampi spazi delle adiacenze a giardino e brolo di villa Bassini e di Palazzo Gradenigo; a sud-est le pertinenze del monastero di S. Francesco.
Dal punto di vista dell’impatto più peculiarmente paesaggistico è proprio la presenza ancora forte del vallo, che per secoli aveva assolto ad un importante compito difensivo per la città e per il suo territorio di pertinenza, a rendere ben decifrabile il limite tra la città vera e propria e la sua campagna.
Di rapporto tra città e campagna si può parlare solo per Piove, in quanto per le altre realtà urbane non esisteva all’epoca un confine reale e percettibile, una distinzione concreta tra due luoghi di diversa funzione e diverse caratteristiche di occupazione dello spazio.
Per Piove la distinzione fisica e funzionale tra le due realtà era netta, segnata proprio dalle fortificazioni, il cui sistema di fosse e terrapieni si articolava in origine in un doppio ordine cingendo tutto il centro e le cui torri – poste a guardia delle porte- additavano da lontano la presenza della città: ancora oggi, nonostante tutte le trasformazioni sopravvenute arrivando a Piove dalla strada di Padova la torre Carrarese che si staglia al culmine della direttrice, rappresenta il primo e più evidente indicatore del cuore cittadino.
Nel corso degli ultimi due secoli, questo rapporto, evolve rapidamente: all’inizio dell’Ottocento i fossati sono in buona misura già interrati e tale pratica continua costante negli decenni successivi fino ad arrivare, all’inizio del Novecento alla distruzione dell’ultima porzione consistente del doppio vallo, in concomitanza con la costruzione del Quartiere Operaio Umberto I°, nell’area pertinenziale del vecchio complesso conventuale di S. Francesco.
Che il XIX secolo costituisca un periodo di transizione e di trasformazioni è peraltro denunciato proprio dalle vicende di questi elementi fortificati che, giusto in questo periodo furono completamente demoliti.
Il rapporto tra la città e suo territorio, passa inoltre attraverso una mediazione, tipica delle città murate, costituita dai borghi presenti sulle arterie principali di collegamento territoriale, fuori dalle fortificazioni.
Ecco quindi, ben identificabili, il Borgo di Santa Giustina cui si accedeva dalla porta difesa dalla torre Rossi con la Chiesa omonima; il Borgo Panico con la Chiesa di S. Nicolò (borgo peraltro strettamente connesso con il radicamento in quest’area della fraglia dei battellieri fluviali che garantivano il collegamento con Venezia attraverso i canali navigabili di allora); il Borgo di S. Anna.
Se questa era la situazione per il centro abitato più importante della Saccisica, ben diversa era la consistenza e la realtà dei centri minori, costituita per lo più da una rada sequenza di edifici allineati ai fianchi della chiesa e posti lungo la strada principale, ovvero accostati a emergenze architettoniche particolari (ville o monasteri).
Così ad esempio Arzegrande, attestata lungo la permanenza meridionale di un antico argine fluviale abbandonato.
Pontelongo, invece si allineava lungo il corso del Bacchiglione, a testimoniare con il suo toponimo, la presenza del transito sul fiume.
Correzzola, al contrario, era accentrata verso la “Corte di S. E. il Duca Melzi d’Eril” che presidia un’ansa abbandonata del Bacchiglione stesso.
Brugine e Codevigo rappresentavano, più che altro nomi di località più che centri abitati, soppiantati in quest’epoca dagli aggregati più significativi di Campagnola (zona Rialto) e Vallonga.
Polverara, Cambroso e Rosara appaiono, ancora di più, espressione di radi agglomerati riferiti alle rispettive chiese.
Nel documento che stiamo esaminando l’aspetto che più colpisce l’osservatore di oggi, oltre alla consapevolezza di quanto l’ambiente sia stato consumato dagli interventi antropici, è proprio quella caratterizzazione del territorio data dalla compresenza, si direbbe quasi compenetrazione, tra terre e acque, secondo quella peculiarità della Saccisica che abbiamo già rimarcato.
Tutta l’area è solcata da corsi d’acqua più o meno importanti, naturali e artificiali, attivi e abbandonati, di sgrondo e d’irrigazione, arginati e non, alti e bassi che si intrecciano in modo singolare, puntando verso le aree indefinite e dai nomi evocativi delle valli lagunari.
Basta osservare l’area compresa tra Conche e Civè, per capire la secolare attività umana e la applicazione testarda di conoscenze tecniche e tecnologiche che hanno consentito alle genti di questa area di consolidarsi e (relativamente) prosperare.
Troviamo indicate idrovore, macchine e macchinette, il manufatto delle “porte pendule” (a Conche), la grande macchina idrovora di S.E. Melzi (Civè).
Certo che a caratterizzare maggiormente il paesaggio contribuivano però i percorsi delle acque.
Molto singolare, da questo punto di vista il fascio di canali che si stringe in località Treponti dando un singolare disegno all’area.
Di grande impatto poi i sifoni realizzati per dare libero sfogo alle acque delle zone più basse direttamente nella Laguna di Venezia sottopassando il corso, in parte pensile, del Fiume Brenta.
Spicca il complesso delle botti a sifone del Fiumicello di Piove di Sacco in località Corte, costruite dapprima nel Seicento e successivamente allungate in relazione al rafforzamento delle opere arginali, risultando leggibile in tutta evidenza la deviazione del corso originale del Fiumicello per la realizzazione del nuovo manufatto.
Opera che presenta oggi una lunghezza superiore ai cento metri con tre canne a tutto sesto in laterizio il cui dorso messo a nudo dalla corrente del fiume, increspa la superficie dell’acqua,
Come questo di Corte sono molto leggibili i tratti di canale o fiume abbandonati o rettificati a seguito a operazioni di miglioramento idraulico: la serpentina di Castelcaro, il Bacchiglione abbandonato a Ca’ di Mezzo, la Brenta Secca oltre Corte.
Di grande interesse storico la notazione con l’individuazione del punto della rotta del 1882, palpabile testimonianza di come il rapporto con i fiumi non sia sempre stato felice .
Su questo ordito principale si intreccia il fitto aggrovigliarsi delle partizioni fondiarie, rese in tutta evidenza nella nostra carta: poiché le linee di proprietà erano (e sono) invariabilmente sottolineate da marcatori storicamente utilizzati, come filari di alberi (gelsi, salici) da scoline e sistemi di siepi, appare chiaro come l’infittirsi o meno di tali linee, la loro tipologia di suddivisione, le dimensioni dei lotti fondiari, portassero a paesaggi agrari di diverso impatto pur su comune matrice.
Basta ripercorrere alcuni tratti del nostro territorio agricolo, seguendo i percorsi più nascosti per ritrovare ancora alcune permanenze di questo tipo.
A seguito di diverse modalità di appropriazione delle terre (come le zone di bonifica) e di diversi assetti proprietari (nobiliari o ecclesiastici), ecco dunque le grandi divisioni particellari di Campolongo; Villa del Bosco; Valli di Arzergrande, i fondi fittamente frazionati in piccole cesure di forma regolare a Volparo e quelli irregolari di Cambroso.
Ognuna di queste realtà è il risultato visibile di una lunga storia e del lavoro di molte generazioni e ognuna meriterebbe una sua specifica trattazione.
E’ dunque su questa ben delineata trama di confini di terre e di acque che si inseriscono tutti gli altri elementi del paesaggio della Saccisica.
La scala del disegno non permette di distinguere la natura delle edificazioni sparse sul territorio a presidio dei fondi, più o meno frazionati, che costituiscono e da sempre hanno costituito il fondamentale tessuto connettivo della vita sociale e economica, di un’area votata alla tradizione agricola.
Ma se tali informazioni non sono esplicitamente leggibili, sappiamo dalla storia che proprio questa vocazione ha connotato in maniera indelebile il nostro ambiente.
Le case e i casoni, rivolti a sud in composizione tipiche rispetto a strade e corsi d’acqua, posizionati secondo la sapienza tradizionale dei mastri carpentieri, quasi una tipologia costruttiva di tipo ecologico ante litteram che utilizzava le risorse dei siti per sostenere la propria qualità di vita.
Ed è un fondamentale elemento di paesaggio proprio il rapporto che si è venuto a creare (in parte imposto dalle esigenze funzionali dell’abitare e dell’operare e in parte sorto spontaneamente in seguito ad un processo di ambientamento naturale) tra i manufatti edilizi e le infrastrutture adiacenti, secondo la costruzione organica di un complesso che risulta, quasi magicamente, (anche qui) in perfetto equilibrio.
Ancora oggi è possibile trovare tracce di tutti questi elementi nonostante le distruzioni operate negli anni: l’ambiente della Saccisica conserva ancora delle invarianti che sono per forza intrinseca, sopravissute all’avanzata dell’urbanizzazione.
Basta osservare, ad esempio i rilievi aereofotogrammetrici realizzati con cadenza regolare nel corso degli ultimi decenni per rendersi conto che alcune parti del nostro territorio possono essere sovrapposte alla nostra cartografia storica e risultare ancora leggibili.
Osservando le stesse fotografie non possiamo però rilevare quanto sia stato alterato negli ultimi decenni il rapporto tra natura e opere dell’uomo: quell’equilibrio che avevamo ritrovato nell’Ottocento, frutto delicato di una millenaria sinergia ambientale, ormai non esiste quasi più se non per alcune zone, soprattutto marginali verso la laguna, che per la loro scarsa appetibilità logistico-economica ci rimandano ancora le sensazioni di un tempo.
Sta a noi cercare di capire, conservare e di riqualificare il nostro ambiente, cercando di ricostruire, per quanto possibile un nuovo equilibrio che tenga conto della nostra storia, in modo che l’esame di una cartografia di qualche secolo addietro non risulti solo una sterile analisi autoptica, ma l’ episodio vivo e dinamico di un divenire che ci insegni a ri-formare il nostro paesaggio e la nostra cultura anche per le future generazioni.
Bibliografia
- Lowenthal D. (1985). The past is a Foreign Country”, Cambridge University Press.
- Semenzato C. (1973). Immagini della Provincia di Padova.