Scipio Slataper, scrittore irredentista, nasce a Trieste il 14 luglio 1888, da madre italiana e padre slavo, e muore sul monte Podgora il 3 dicembre 1915, durante una perlustrazione per la quale si era proposto volontario, e come volontario si era arruolato nell’esercito italiano. Morì a soli soli 27 anni, lasciando tuttavia scritti indimenticabili. Aveva avuto un figlio al quale aveva dato il suo stesso nome e che fatalità volle che perisse anche lui in guerra, come alpino della Julia, sul fronte russo. A Firenze, Slataper si laureò col massimo dei voti in lettere con una tesi sul drammaturgo norvegese Henrik Ibsen, e a Firenze, da giovane studente, conobbe la crema letteraria del tempo. Collaborò a “La voce“, la rivista di cultura e politica diretta da Giovanni Prezzolini che ne fu pure il fondatore nel 1908.
Rileggendo in questi giorni la sua opera principale, “Il mio carso“, riproposto da BUR, fra il raccontare della giovinezza, mi ha colpito la tanto bella quanto selvatica descrizione della vendemmia, che propongo qui a lacerti, incoraggiando vivamente la lettura del libro, bello, dolce, selvaggio, tenero e struggente…
“Bella é la vendemmia. Oltre i vignaioli vanno grida e risate; i cani sbalzano, accucciandosi sulle zampe anteriori davanti, da questo a quel gruppo di vendemmiatori, e i passeri frullano sbandati. …
Le labbra e il mento sono appiccicose di miele stillato, e le mani, la maglia, il manico della roncola, i pampani, le brente (ceste per deporre i grappoli), i carri. Tutto é una gomma rossastra. E ci si lava pigiando a palme aperte gli scricchiolanti grappoli nella brenta. Buona é l’uva addentata a grani dal tralcio, mentre dagli occhi sgocciola il sudore e la palma della mano é stanca della roncola. Ma ancora un filare, ancora questa vite, ancora questo grappolo! Qua una brenta! Alloo! E, tornati giù sbalzellando, il pane e il brodo sono buoni che mai. Si gode della bella tovaglia bianca sotto la lampada. Domani si ricomincia. …
La cantina era bassa. Nel mezzo su una botticella fumazzava una fiamma rossastra di petrolio, il padron di casa sedeva vicino alla fiamma, con un bicchiere in mano. Nel volto era del color dei fondi violacei della botte. Tutt’intorno giravano grandi botti brune e tini panciuti. Sui muri, nei cantoni, tra l’inferriata del finestrino murato c’erano mille ragnateli tracciati e aggomitolati nella polvere. …
I bei grappoli pieni che avevamo colti ieri si pigiavano nel tino. Spiluccammo i grani più grossi, stufi d’uva….
Zappavano (pigiavano) l’uva, curvi, aggrappati sull’orlo del tino anelando come i taglialegna. Le gambe pelose, rosse, alternavan la battuta con frenesia, e il tino si squassava sotto i colpi. Gli acini e i gusci e il succo schizzavano tra le larghe dita dei piedi ….
Le unghie erano diventate rosse. …
Il mosto bolliva nelle botti aperte, sciamante di moscerini ubbriachi. Assorbivo un caldissimo odore asfissiante. Gli uomini s’accendevano. Rovesciarono una brenta piena di mosto, e il vino schizzò a ondata sull’uomo e sul muro corse a rivoletti impetuosi, tinse la gatta spaurita. Uno si buttò per terra a sorbire la motriglia (fanghiglia) vinosa. Il padron di casa bestemmiò, rise, mi tese un bicchiere di mosto. Bruciava. La cantina era bassa e rossastra”. (Il mio carso, BUR, 2013).
Cfr la recensione su: http://www.lankelot.eu/letteratura/il-mio-carso-di-scipio-slataper.html