D’Annunzio, esuberante nei piaceri, parco nella mensa

Ritratto del poeta-scrittore nella casa natale

Gabriele D’Annunzio (Pescara , 12 marzo 1863 – Gardone Riviera, 1 marzo 1938), il famoso sibaritico poeta decadente pescarese, non si risparmiava certo nei piaceri voluttuosi e nel suo spirito di grand tombeur de femmes; diversamente, a tavola era l’opposto: parco e alquanto contenuto. Per i piaceri smodati riuscì ad accumulare ingenti debiti tanto che dovette lasciare l’Italia per la Francia per ritornare giust’appunto poco prima dello scoppio della grande guerra per arruolarsi come volontario. Divenne un eroe simbolico ed eccessivo con le sue ardimentose imprese come la  “Beffa di Buccari” e  il volo su Vienna. Inquieto di temperamento e gran “rompiscatole” anche per il regime che aveva appoggiato senza riluttanza. Alla fine,  deluso per quei sogni che vedeva svanire, divenne pensionato di regime nella sfarzosa villa di Gardone,  il noto “Vittoriale degli Italiani”, che “donò” allo Stato Italiano in cambio del pagamento dei suoi debiti.

Parco a mensa, il D’Annunzio amava soprattutto alcuni piatti semplici della sua terra, forse perché riuscivano a creare un legame con il suo aspro Abruzzo che non cessò mai di amare: “ Porto la terra d’Abruzzi, porto il limo della mia foce alle suole delle mie scarpe, al tacco dei miei stivali…Io sono di remotissima stirpe. i miei padri erano anacoreti nella Maiella...strozzavano i lupi, spennavano le aquile, intagliavano la sigla nei massi con un chiodo della croce raccolto da (Sant’) Elena” (madre dell’imperatore Costantino).

All’interno della casa natale del D’Annunzio

In particolare si dice che il D’Annunzio avesse un debole per i dolci, che non gli fecero un bel servizio, con i quali di quando in quando qualche  pasticcere, suo estimatore,  lo omaggiava inviandogli ad esempio il PARROZZO, un dolce ricco di cioccolato, zucchero, mandorle, burro, uova e farina, che il Vate apprezzava soprattutto perché fatto nella sua terra

Ma é nella frittata che il D’Annunzio si vanta d’essere gran maestro: Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata, per riconoscimento celestiale, uditemi...:.Vediamo allora cosa scrive il Vate sulla frittata con una punteggiatura tutta sua: Chi conosce l’arte della frittata? “fretada rognosa”. io. io solo. e per testimonianza celeste… Ruppi trentatre uova del nostro pollaio esemplare. e, dopo averle sbattute con mano prode e sapiente, le agguagliai nella padella dal manico di ferro lungo come quel d’ una nostra chitarra da tenzone o d’una tiorba del Bardella (1). La grande arte si fa nel rivoltar la frittata per dar ugual cottura all’altra banda…Scarsa era la luce…Allora escii con la padella all’aria aperta sul limitar del vestibolo di tufo…adunai la sapienza  esatta e il misurato vigore nelle mie braccia e nelle mani che reggevano il manico. diedi il colpo, attentissimo a ricevere la frittata riversa. la frittata non ricadde. Pensate con quale angoscia dubitai che per mio fallo si fosse spiaccicata sul tufo. ero certo di aver questa volta superato me stesso. guardai e riguardai. nessuna traccia! Nel volger gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo. feci di gelo. l’angelo nel passaggio aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita. la sosteneva con le dita non usate a levare l’ostia. la recava ai Beati, offerta di perfezione terrestre. non imitava la dorata ritondità dell’aureola? In Paradiso, o mio ospite vantevole o emulo raumiliato, nel Cielo primo ell’é per i secoli dei secoli l’aureola di Sainte Omelette (da “Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire”, Mondadori  1935).

Vari altri riferimenti al cibo li si trova sparsi qua e là negli scritti del D’Annunzio quale attento osservatore del mondo che lo circondava: Mi volto: mi avvicino ai contadini, perché m’infondano la pazienza. sembrano intagliati nella pazienza, dalla cervice al calcagno…Certe donne reggono una rete, un sacchetto di maglia, con entro un tozzo di pane, una mela, una piccia di fichi secchi, una pezzuola rossa. tanta pena mi fanno quelle mani villose, nocchiute, gonfie di vene paonazze, piene di calli e di rosure, malate alcune e piagate, torte alcune e consunte come mazze..(da Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto di Gabriele D’Annunzio tentato di morire, 1935). E tutto finiva spesso in malinconia: ” Tutta la vita é senza mutamento./ Ha un solo volto la malinconia./ Il pensiero ha per cima la follia./ E l’amore é legato al tradimento“.

D’Annunzio oramai é poco letto, se non per “costrizione” scolastica. Le sue opere non si ristampano quasi più, perché é il mercato che ha sempre la meglio, come ho potuto constatare in una mia recente visita alla libreria antica di Pescara. Solo poche cose del Vate. Qualcuno lo considera, demodé, ma se mi guardo intorno, spesso, incontro il deserto!

(1) Tiorba é un lemma di derivazione latina. Il D’Annunzio si riferisce ad una grossa chitarra simile al liuto in uso intorno al 1580 quando alcuni poeti e musicisti romani e fiorentini si radunavano nel palazzo del conte Giovanni Bardi, per discutere di musica antica per recuperarne la purezza monodica, rinunciando al contrappunto.

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